Sulla soglia
Quando ero giovane, me ne stavo
sulla soglia dell’orizzonte
accovacciato come un leone,
intento a guardare, a ghermire
l’onda iridata dei ricordi, li mutavo
in musica e visione.
Ora sto trepidante sulla soglia,
non più grande del solco di una fossa,
delle cose invisibili.
Tutto
mi è stato tolto, imploro
di vedere un istante il Tuo volto.
M’abbandonano le forze, sento
i miei pensieri intorpiditi, non
voglio addormentarmi, recito
a me stesso versi che si tendono
al cielo lunghi rami intirizziti.
Sono la Tua sentinella, l’affannato reporter,
temo che Tu passi improvviso
mentre giaccio nel sonno, che mi scosti,
che io non scorga il Tuo viso.
L’antropoteomachia
Il giovane animoso
danzando instancabile sul ring
intorno all’avversario che lo sovrasta
per potenza ed allungo; egli
lo pungola con il sinistro, lo provoca
perché s’avventi e si scopra…
Ben lo sa il campione impenetrabile
mentre lo guarda negli occhi e, schivando,
sul tronco appena si sposta:
sarà l’altro a cadere inseguendo
un fantasma e una risposta.
A un lampadario antico
… ed altri, col desio folle che spera
gioir forse nel foco perché splende
provan l’altra vertù, quella che ’ncende.
(Francesco Petrarca, Rime, XIX)
Ora
da un bianco cielo d’intonaco
diafano pendi, esule uccello smarrito, ansia
mortificata del volo che
una memoria d’azzurro ridesta
e l’anima sommersa che invoca,
dalla dura prigione del cristallo,
un fuoco vivo oltre la fredda
equazione dell’alba e della morte.
Cerchi brancolando le finestre
vertiginose, gremite d’ombre che guardano
la gimcana fragorosa della vita che passa,
antico lampadario dalle gocce di pianto,
tanto più grande entro il manto
della penombra.
E la luce che a un comando s’accende
come un gioco improvviso tra le volte
e i muri a calce della stanza deserta
non tua
non tua la senti seppure di lei
tu viva da sempre in attesa. Luce
che t’attraversa e non t’appartiene,
gelido portento che trascorre
nel vuoto, poi in subito guizzo si spegne. Resta,
fratello, il tuo oscuro volo
di appeso.
Le rondini
A Giorgio Cusatelli
Non so con quale diritto le rondini
hanno occupato questa parte di cielo,
la incidono con un frenetico lutto
che turba la dorata
quiete del tramonto.
Eppure sono là, nulla
che possa allontanarle, con il loro
stridere forte esili ombre
saettate dall’aldilà
smarrite cercano
le smarrite porte.
Risveglio
Redivivo
dopo la burrasca il mattino
sporge tra le persiane dischiuse
il suo viso verdolivo.
Brusio di luce penetra,
fra dissolvenze di pareti avanza
brancolando verso il mio letto,
io col fiato sospeso
sospeso il tempo
a fibrillarmi nel petto.
O polline dorato
di numinose essenze,
entrato nel tuo fulgore
altro segno non chiedo,
né altra conoscenza.
A futura memoria
Quei giorni d’amore senza fine
io già li vivevo col presagio
dello strazio di oggi
a rammentarli.
Il fiato del tempo futuro
soffiava a tradimento sulla breve
felicità del presente,
ne spegneva il sorriso, appariva
nello specchio un volto trepido e sfatto.
Forse è questo lo scotto del poeta: i tempi
sfalsati della sua storia: rievocare
il passato, vivere il presente
a futura memoria.
Dal treno
«Siediti
nella direzione del treno» s’affannava
mia madre, alla stazione, al fragile ragazzo
affacciato al finestrino colloquiale.
Così feci per anni. Era bello incontrare
il mondo, le sue immagini in corsa,
il presente e il futuro
avvinti in vorticosa danza.
Più tardi
fu diverso. Mi struggeva
questo lasciarci repentino all’atto
d’incontrarci, l’afferrare a pena
qualche lembo stracciato delle cose, mai
veramente conoscerle.
Così
ho pensato di sedermi contro
la direzione del treno, volte le spalle
a ciò che senza tregua
turbina e incalza.
Ora sono io che mi vado allontanando,
le cose
stranamente mi seguono, mi guardano,
lasciano che a mia volta le contempli in ogni
più insignificante significante particolare
monti fiumi alberi uomini
e io in mezzo a loro, amici cari,
anche scomparso, continuano a salutare.
L’opzione
Fa’ come se il mondo
fosse stato distrutto e tu per miracolo sopravvivessi
in un lembo risparmiato dell’universo.
E l’Eterno, sopra una nube di ceneri e fiamme,
ombra immensa affacciata sul vuoto a te ordina: «Scrivi
ciò che ricordi. Rinascerà chi avrà scampo
nell’arca della tua memoria».
Ed ecco il tormento della poesia che decide, la divina
crudeltà dell’opzione:
quello è condannato a sparire,
questo avrà vita e parola.
La felicità
a Giovanna
Se esista davvero,
se sulla terra si celi od altrove
in qualche
sconosciuto astro o pianeta
e sia dono o conquista od incontro
improvviso ad un angolo
di una strada desueta…
Ma questo io so
che da tempo
più non la cerco, da quando
m’apparisti nel riquadro d’un giorno
e ancora
tra ingiurie e baci dolcemente infurii,
tenacemente
mi vivi accanto.
Le cose
Un tempo camminando in mezzo a loro
le cose s’accendevano di luce
si stringevano intorno a noi
aprivano
in versi il loro cuore confidente.
Ora
le cose già splendenti impallidiscono
si ritraggono alla vista, hanno voce
bisbigliata alle spalle, a volte un cenno
né arrivederci né addio, appena
un distratto congedo.
Forse questo è morire, l’impietosa
reazione di rigetto del mondo al breve
insensato nostro esistere.
Dietro le bifore annerite
dei muti campanili
appaiono ci spiano
le occhiaie vuote di Dio.
I morti
Mi chino su di voi
ramo spezzato, ma vivo
ancora di verdi gemme, di tenere
ali fruscianti, odo
la vostra voce di vento, tristi sirene del nulla
occhi glauchi occhi fondi che specchiano
lo sguardo assente del cielo, la cupa
attrazione dei gorghi.
Così
mentre ne prego la pace, i morti
afferrano i vivi, li avviluppano
con i ricordi li trascinano
nei loro regni senza speranza.
Se restaurare la casa degli avi
Qui nella casa che nessuno
ha voluto restaurare (non
vale la pena hanno detto, la pena
di ricordare) ho trascorso la notte
evocando i miei cari al lume
di una candela superstite
con la fiamma tremula, incerta
fumosa anima che poi
si è spenta di colpo insieme
all’immagine un poco sbiadita dei Lari;
Guido, non vale la pena
sussurrano con la voce dell’erba
che cresce sul tetto in dissesto
del vento che geme tra i vetri
sbrecciati dei lucernari.
La montagna
A un predicatore del nuovo catechismo
Ma poi d’improvviso
uscimmo dal folto del bosco
e dinanzi a noi era lei,
la montagna altissima,
la montagna assolata,
il nostro brullo calvario.
Come d’incanto il sentiero
si perdeva tra le rocce scoscese
tracce sparse qua e là salivano
verso l’abisso rovesciato del cielo.
Forse fu giusto
con la tua guida sicura percorrere
l’oscuro intrico del bosco
o solerte predicatore del vero.
Ora non più, ora ognuno
fissa la vetta splendente
e sceglie secondo sue forze un cammino
suo tra l’erbe arse piegate
da passi lontani o dal vento
che grida la nostra
la tua solitudine mentre
si fa affannoso il respiro
e la Parola impotente
ci riconsegna al Silenzio.
Perché, fratello,
non è una montagna felice
da salire cantando tenendosi per mano,
è una montagna di rocce, d’abissi, d’agguati,
dove l’aria ti manca
nessuna corda che ti possa aiutare
e sulla vetta ad attendere forse
null’altro
che un cielo chiaro.
Una voce
Una voce alla fine del viaggio,
un’hostess celeste? mi ha chiesto
quale cosa nell’universo
più di tutte il mio cuore stupì.
La gloria del sole, il silenzio
stellato del cielo, la rosa
ridente nella sua perfezione, i versi
di Dante e di Omero… Ma sopra ogni cosa,
io qui.
Requiem per un vivo
Perché muove tu credi che sia vivo; ma
non vibra nel presente,
non sporge sul futuro,
penzola dal trave tarlato
dell’essere stato.
Il fiume
Ci convocò tutti, reporters celebrati,
reporters di provincia al suo
giaciglio melmoso, ai suoi schiumosi
vaneggiamenti d’infermo, ai suoi occhi
febbrili, alle sue lune
intristite nelle pozzanghere, il fiume
un tempo famoso, le arterie ostruite, l’acque
biancastre che i topi
attraversavano a nuoto, dove
uomini resi sicuri dalla mancanza d’ogni certezza
scaricavano, insieme alla propria anima,
veleni, cumuli d’immondezza. Si spegneva
la sua voce profonda, solo
un tetro gorgogliare d’agonizzante,
dalle maleodoranti sponde fuggivano a frotte
suicidi pentiti, coppie drogate d’amanti.
Un magistrato faceva prelievi, il fiume
nel frattempo era morto, un giornalista
per fare uno scoop intervistò gli annegati
mancati. Del fiume
tre righe soltanto
dopo i morti ammazzati.
Ode alle banche
Le banche sono tranquille e serene dimore
dove non abita la vita
ed è sconosciuta la morte.
Quando
il dolore del creato s’accosta
alle ben vigilate porte, scacciato è come un mendico
insieme all’anima immortale
che ne divide la sorte.
Soffio di vento non giunge, voce mesta
del nostro tempo che da noi s’allontana,
sotto una luna al neon fa colorata festa
tracima un fiume
di filigrana.
Luogo non conosco
più di questo difeso dal plebeo
insulto delle grida e dei motori
se non qualche remoto cimitero
dove i morti si aggirano tra i marmi
senza timori.
Forse un giorno tra queste
ovattate pareti ci avverrà di sparire
cifre di un conto saldato per sempre,
da più non riaprire.
Una madre
Una madre al carcere andava,
la fermò, la frugò un secondino.
In seno portava un rametto:
l’hashish per il suo rondinino.
È in me
È in me, ma non è me se non esita
a interrompere il mio sensato ragionare, se
molto inopportunamente interviene mentre
fra consensi ed applausi
comunico al mondo in un sorriso
la soddisfatta considerazione di me stesso,
«Mi vergogno di te», sussurra senza neppure motivare,
o lascia cadere, con nonchalance,
«Che ne è stato del tuo progetto
di trasformazione del mondo?»
poi, con finta premura: «Rammenti
quanti milioni di uomini muoiono
ogni anno per fame?», palpeggiandomi insolente
l’abbondanza del ventre.
Sono una persona
socievole, equilibrata, ben accetta agli amici,
detesto questa compagna di viaggio che a un brindisi
sibila velenosa: «Ricordati che devi morire»
e nel bel mezzo del sonno
mi sveglia per informarmi che di ogni ora
si tiene conto preciso da qualche parte.
Gli psicologi chiamano la cosa
«Io superiore», per me è un’intrusa
che giudica a vanvera, non ha esperienza di vita, sconosce
carità e discrezione. So inoltre
che attende impaziente di liberarsi di me, controlla
i battiti del mio cuore, il pulsare
tempestoso del sangue, proterva ha iniziato
il conto alla rovescia degli anni
che ancora mi restano. Ma io pure
mi rallegro pensando al distacco: quando
le mie quattr’ossa riposeranno in grembo alla terra
senza inquietudini e patimenti di sorta ed essa
in un frullo malcerto di ali uscirà dal mio corpo,
così detto inospitale, nel sole e nel traffico, inseguita
da grida roventi di vita e dall’agile scatto
di un vecchio marpione di gatto.
Ti penso
Ti penso in quest’ora
che le saracinesche dei negozi
si schiantano nel petto, ghigliottinano
le nostre speranze.
Quali misteriosi paesi di confine
abita oggi il nostro spirito turbato
se scorgo figure ben salde
trascorrermi innanzi abbracciate a fantasmi?
Care sembianze, amici
troppo miti per trovare un posto
nelle pagine frettolose della storia,
fanno ressa poi si dissolvono
sullo schermo della memoria.
Non tu. Come quella sera
sul terrazzo noi due soli a guardare
il cielo venirci incontro
uccello immenso che spalancava l’ali
azzurre fino all’orizzonte.
Mi restano i tuoi versi che trascorre
una delicata brezza
quell’aria di famiglia che s’avverte
tra poesia e tristezza.
L’altro
«È lui, è lui» gridavano.
Eravamo
in tanti allineati sopra una panca logora,
incolore, se non per qualche macchia
di vomito o sangue, sole tracce
d’umano in quella stanza tetra, detta
della ricognizione. Si scorgevano
bianche mani muoversi staccate
dai loro corpi invisibili come in un nero
teatro di animazione. Ricordo
gli indici lunghi, perentori, puntati
contro di me, frecce d’osso acuminate. Dunque
mi avevano riconosciuto. Incredibile
in quell’aere perso, ma prima
li avevo uditi che annusavano.
Al fiuto
avevano scoperto il diverso.
Non so
se viltà o goffaggine, abbozzai
una difesa. «Conto amici importanti
verranno quaggiù, ne son certo,
a testimoniare per me». Farfugliai
qualche nome. Ridevano. Seppi più tardi
che erano da tempo in prigione.
Cominciarono
a turno a recitare qualche mio verso.
Avevano l’arte perversa di rendere ogni cosa
che pronunciavano sospetta o ignominiosa.
A un tratto
dalla strada una luce proruppe e grida
come di festa.
Riuscii a sorprenderli,
d’un balzo corsi verso la soglia,
Là
una figura immobile, un’ombra
mi sbarrava l’accesso. Lottammo. Impossibile fuggire.
Preveniva ogni mia mossa. Era più forte.
Era l’altro me stesso.