Qualcosa


Sogni estivi

I
Quel fiato vacillante, quell’indizio
d’esistere chiamato l’io
uscito a un tratto dalla ferrea
impalcatura del tempo dentro l’afa
visitata da visioni, il vento
che trattiene il respiro e lungi
all’orizzonte fa oscillare i lumi
d’una città invisibile, parole, versi
sconosciuti che sussurrano
figure senza labbra, immobili
come grandi statue in attesa
di noi ai terminali della vita
«Che fai quaggiù in mezzo
a tutta questa nebbia, donde vieni?»
una voce stancamente in quale
lingua defunta riscoperta forse
con i messaggi delle lapidi e
«Dove vai?» domanda un altro che fa il gesto
d’aggrapparsi alle proprie vesti
appena giunto in quest’oceano
di vuote forme «dove vai
a soffocare l’anima
per corridoi di carta senza sbocco
e scopo, in questa estate che laggiù
è crivellata dagli spari e ad ogni giorno
vomita morti?» Non v’è risposta
e tutt’intorno un mite
dolce sentore di rose (oh la gentile
ipocrisia delle rose sopra un corpo
in disfacimento!). Null’altro, l’acque
della memoria si vanno ritirando, lasciano
la mente come il letto
d’un fiume prosciugato, vuoto
se non qualche detrito senza nome
e senso.

II
Il sole
era altissimo nel cielo
palpitante di fulgido azzurro
davanti lo smeraldo
purissimo del prato, ogni cosa
era colma di luce, volgeva
intorno il suo limpido sguardo.
D’improvviso il grande verde s’oscurò
inesplicabilmente in tanto
ostentato chiarore e dal silenzio
si levò un sospiro
profondo tra l’erba e gli steli
sino al circostante bosco. Muoveva
un’ombra immensa nel prato
lingueggiava e bruiva, creatura
sconosciuta, vivente
proiezione del nulla. Ed una voce
umana e non umana s’udiva,
pena echeggiata all’infinito. «Corrono»
diceva «per l’irrequiete balze
di fugaci piaceri, strappano
dal cuore le proprie radici;
in un coro di lapidi bugiarde
ci depongono in fretta nell’oblio.
Non sanno che la nostra vita
è la loro memoria, non si curano
di noi che gli viviamo accanto
dando voce al silenzio.
Oggi siamo qui riuniti, mesta
assemblea di morti, per levare
l’unanime protesta delle ombre.
Chi rappresenta i vivi, chi
parlerà per loro?»
Allora udii stupito la mia voce
ferma che rispondeva a quel consesso
d’anime dolenti: «I poeti,
ben lo sapete, amici, sono loro
che da sempre rappresentano i viventi
presso il regno invisibile dei morti;
e recano, instancabili, messaggi
dall’una all’altra sponda».
«Dunque» continuò il coro «dite a questi
che il sole ancora illumina, che solo
nel ricordo è salvezza e che perduto
dagli uomini il passato vagheranno
accecati per la terra dei padri,
senza meta, cercandosi l’un l’altro;
ma non si troveranno».
Un frullo d’ali, un vento.
Abbrividendo
tornò a splendere il prato.

Ultimo atto
Noi, i sopravvissuti, noi i morti
rannicchiati come feti dentro
non so quale memoria.
Un cielo
sereno e vuoto in cui svapora il mondo.
Ancora
la voce dell’Uomo risuona:
«Libera le ceneri, Signore, dentro l’urne
per l’ultimo vento».
Impossibile
incidere con la parola
il ghiaccio del Tuo silenzio.

Sera in cucina
Tu l’ascolti quel ronzio
che s’incide nel silenzio
della stanza ottenebrata
scende e sale
già t’inscrive nel suo cerchio
insistendo, un sibilare
un vibrare
che t’avvolge, ti trascina
con sé dentro una spirale
in un gioco un poco tetro
nella stanza di cucina?
Cresce ancora quel ronzio,
orbitando alla finestra
batte stride contro il vetro,
tu ne tremi, cuore mio,
un moscone,
il Tempo,
Dio?

Qualcosa
Tra il Tutto
e il Nulla
c’è il qualcosa
non lo canta nessuno
ma la vita
nel suo grembo riposa.
Il mondo s’inabissa
una lontana
galassia
terra e mare
risucchia
ma qualcosa
nel lembo estremo
s’agita resiste
trema insecchito
il gambo di una rosa.
Debole il pensiero
vaneggiando dilegua.
Anche Dio
si disgrega.
Pur qualcosa
come un verso spezzato
ancora invoca
stormisce vivo
nell’assenza brumosa.

L’ospite
Nel mio giardino stamane all’alba
in silenzio rasentando le aiuole
un estraneo che s’aggirava
circospetto guardandosi attorno,
i nostri sguardi si sono incontrati.
Nel suo
curiosità e paura lottavano,
nel mio avrà letto
insofferenza o minaccia? D’un balzo
ha raggiunto un cespuglio, acquattato
mi fissava scrutandomi. Quando
sono riapparso, in mano una ciotola
colma di latte, si è avvicinato
cautamente a piccoli passi.
Potavo fischiando un piccolo albero
il sole inondava il giardino di tenera luce
la ciotola a terra era vuota.
L’ospite
si strofinava ai miei piedi
con sicurezza e con garbo, staccatosi
seguiva attento il lavoro mostrando
un interesse benevolo e grato,
ogni tanto con discrezione
miagolava persuaso.

Vaticinî
Ultima notte dell’anno. È tempo
di spiegare sul tavolo
le vecchie mappe consunte, il disegno
segreto del viaggio
così a lungo programmato che mai
conobbe il vento propizio,
d’interrogare gli astri, le viscere calde
d’una vicenda umana, l’ambiguo
sorriso della tua donna, mentre
simile a un torpore cresce e t’invade
una saggezza precocemente canuta.
Concordi vaticinî dicono
l’inanità dei progetti che si scostino
dagli squallidi consuntivi sempre uguali, avvertono
che la vita va oltre e non ritorna
verso chi, per fissarne l’immagine,
si è staccato da lei ed attende
senza segnali ai suoi margini.

Guardando un quadro del Seicento
Bel cavaliere che il cavallo arresti
in mezzo al bosco e guardi la fanciulla
che ti porge la brocca, il suo sorriso
e forse pensi al fresco della bocca,
più che il leggiadro aspetto
e giovinezza e amore e ogni altro dono
che ti diede l’artista,
la sorte invidio che dividi con un dio
la suprema
felicità di non esistere.

Una favola
Al lato di un torrente
un fanciullo contempla
l’acqua scura e splendente.
Senza paura con una
piccola lenza tenta
di catturare la luna.
Accanto il nonno scruta
l’acqua profonda e muta
che corre e si disfà.
Non la luna egli cerca,
cerca la verità.
Dal fondo uno spettro sale
che tiene in mano un lume,
porge al fanciullo la luna,
al vecchio sussurra «Sono qua».

Gli angeli custodi
D’improvviso erano spariti gli angeli custodi
in sciopero per protesta
chiedevano una vita nuova
donne e figli anche per loro, un pranzo
con gli amici, qualche festa;
da tempo gli si leggeva in viso
la noia d’una vita
che non era la propria, ma sbiadito
riflesso d’altre vite.
E io, stanco del mondo,
delle sue pompe e dei suoi colori
smaglianti e ingannatori (e ora
quello sguardo di distacco, un bisbigliare
alle spalle, pettegolo e pietoso,
quell’aria di mistero e di sventura
che mostrano le cose intorno a noi
quando a vecchiaia ci sospinge natura)
non chiamatemi crumiro se mi sono offerto
di rimpiazzarne uno di quegli strani
volatili dal volto umano.
Nell’ufficio che da secoli gestisce
il servizio degli angeli custodi (in cima
a una recondita montagna) ho fatto
con molto batticuore quella ch’era,
o mi sembrava, una proposta insolita.
«Dovrai attendere» mi dice con burbanza
un Tizio affaccendato nel via vai
delle nuvole migranti. «Abbiamo
molte domande in evidenza
del volontariato. Ma forse»
m’incoraggia «un posto lo puoi avere:
tu pure hai volontà, poco sapere.
Ascolta» prosegue l’insolente
«al mondo si conoscono tre forme
d’esistenza: quella somma
che appartiene a Dio Onnipotente;
indiscrezioni, voci, nulla più,
tengo famiglia e sono prudente.
C’è poi quella che vive
e muore per cui mostri
non so se ripulsione o sofferenza.
Se vuoi il mio parere quanto agli uomini,
ricorda di Cambronne la sentenza.
Infine la stranezza che si noma
paraesistente. Abita in simbiosi
con il genere umano di cui prende
custodia e cura. Angelica natura,
oggi spirito-guida, a Dio risponde
di quelli che ha in affido:
gente ingrata, i fallimenti a lui,
i meriti e i successi
sempre li attribuiscono a se stessi.
Son pieni di pretese, se un momento
lasci mancare loro l’assistenza,
durante le preghiere ti denunciano
al Tribunale della Provvidenza.
Peggio che mai quando son morti e ancora
ti tocca di guidarli nel gran viaggio:
donnette paurose cui bisogna
raccontar storie per fargli coraggio.
I vivi li dimenticano ed essi
dalle tenebre gli rinfacciano il posto
che lasciarono loro sulla terra, traditori
se risparmiano lacrime ed onori.
E però su di un punto son d’accordo
i vivi e i morti: che quest’angelo,
piovuto chissà come in mezzo a noi,
è una spia dell’Oltre od un balordo.
Forse più a lui che all’angelo del male»
rise e disparve in buio gorgo d’anime
«Dio riservò la visione infernale».
Da quell’empio discorso
dissuaso e intimorito,
da un sogno d’ali in me stesso
ho fatto ritorno. Così
a un incerto pericolo sfuggito, in male
maggiore e certo sono incappato. Ora da tutti
vengo segnato a dito:
uomo che fugge, angelo mancato.

Nel solco del verso
Il giorno che mi dicesti «Ti amo»,
nel cimitero delle parole
si spaccò il freddo marmo, risorsi
dal profondo dell’anima, il corpo
balzò vivo nel desiderio di te.
Mentre ci baciavamo volavano
inquieti congressi di foglie, una nuvola
che passava reclamò l’attenzione,
chissà dove un usignolo
sfidava la vertigine del Tempo con
il cristallo verticale del canto.
Compresi che l’universo
con un segnale o soltanto un sospiro
mi richiamava all’antica
legge che mi governa, ancora
nel solco dolente del verso
indicava il cammino.