L’albero della conoscenza


l albero della conoscenza

L’albero della conoscenza
Dall’albero scosso
sono cadute le foglie che l’acqua
del fiume trascina lontano in
multiformi costellazioni. Staccato
dalla linfa che lo genera, muove
un alfabeto di foglie cerca
una vita nuova nelle
tumultuose correnti, nei mulinelli
che improvvisi si formano. S’imbevono
dell’acqua silente che le sprofonda. Così
avendo provato il pallido
riflesso del cielo, l’odore
acre del mondo, giacciono sotto una coltre
di fango le intruse parole.
Ma il fiume, lui,
non sarà più come prima, avrà conosciuto
la trama mutevole che fanno le foglie
danzando sull’onde, il lento
discendere, il sogno, il buio lucente
del fondo.

Questo paese
Questo paese
capovolto nel lago
è più dolce e più vago
delle sue case di pietra
e forse riaffiora
in questa magica ora
da quali antichi misteri.
Non crede d’esistere eppure,
riflesso o riemerso, sta,
sospeso nel nulla a colloquio
con una labile divinità.

Il traghetto
«Visibilium et invisibilium»
diceva in un sordo bisbiglio
il vecchio folle di cielo e di mare
quel giorno rifiutò una fortuna
in nessun luogo mi volle portare.
M’accompagnò alla barca vicina
parlò di un ordine da rispettare.
La barca era fonda e spaziosa
ma l’acqua ed il complice tempo
l’avevano incrostata e corrosa.
Ai remi sedeva una donna
scarnita. Le chiesi il prezzo
rispose «La vita».
«Cos’è» domandai «l’invisibile?
Un sogno o la nostra
realtà infinita?» S’oscurò in volto
«Io traghetto e non parlo».
Poi in un sussurro: «Amico
nessuno ti aspetta
tienti stretta la vita».

In fila
Marciano in fila, come a scuola,
quelli che non ci sono più
e quelli che ci sono ancora.
Il maestro, a quel che pare,
ha il suo daffare, qualcuno
ogni tanto s’eclissa
poi nell’altra fila
ricompare.
Né gli uni, né gli altri
hanno una meta fissa
se glielo chiedi
anche il maestro glissa.
A volte li sorprendi a dialogare
ma è un brusio
un ronzio confuso
d’alveare.
Se li osservi sono eguali d’aspetto
ma i morti hanno un contegno
più sobrio, più corretto, l’ombra
gli ha cucito addosso
un grigio doppiopetto.

Notti estive
I
Ti calavi calmo dal cielo colmo d’assenza
sulle ali di un tempo immaginario tra i rami
di un larice guardingo afferrando
brandelli appesi di ricordi solitari t’affacciavi
sull’ansito affannoso delle stanze spargevi
sui madidi corpi i tuoi filtri d’amore
con il tuo pallido riso baciavi
le avide bocche del mare
il suo fiore di spuma,
angelo vizioso con
grandi ali d’alghe
angelo futuro liberato
nella luce.
II
Venne una tempesta
spazzò via tutti gli orizzonti
sbriciolò le parole sulle nostre ansie
tremarono le ginocchia ai secoli fuggitivi
le schegge degli astri trafissero
la delicata coltre dei cieli insanguinarono
il monte desolato degli ulivi e tutto
fu fiamma, lava e poi cenere
scagliata dal cratere
indomabile del Nulla.
E dopo la tempesta, com’era stato promesso,
sopraggiunse la quiete, ma non era
vita o morte piuttosto
il loro squallido incesto mentre il vento
come un bambino spaventato piangeva
sul grembo intristito della notte.
Poi tutto tacque
dalle immobili acque, dagli steli
irrigiditi come lance, dalle umide
cavità, dalle bocche murate, un silenzio
terribile e pio si levò verso il cielo
perché lo sentisse tra gli astri
l’orecchio disattento del dio.

La tregua
Chi ha firmato la tregua
tra il tempo e l’eterno
in questa luminosa marina
ove il sole, Polifemo monocolo, scaglia
i suoi mulinelli di luce
chiama a raccolta poi brucia
gli anni che furono e quelli
che ci stanno di fronte
in attesa pazienti ed ambigui
sulla linea dell’orizzonte?
Si sciolgono insieme
speranze ed affanni
nel mare infuocato ove caddero
le fragili ali del baldanzoso Icaro,
qui tra le azzurre vene
la realtà implacabile e il mito
si scambiano le parti in un sacro
rito che non ci appartiene.
Nessun happy end se la vita
abbracciandola forte
in questa tregua d’estate
sembra fermare la morte.

Il tasso
«Come va?»
«Non va».
«E perché?»
«Non si sa».
A rispondermi era un tasso
che portava in spalla un sasso.
Insistei:
«Dove va?»
«Siamo al lei?
Nell’aldilà».

Le blaireau
«Comment ça va?»
«Ça ne va pas».
«Et pourquoi?»
«On ne sait pas».
Qui me répondait était un blaireau
Qui portait une pierre sur son dos.
J’insistai:
«Où allez vous?»
«On se vouvoie?
Dans l’au-delà».

Portofino
Caimano azzurro emerso
dall’acque chiare
ad ingoiare il sole.

La luna
La contempliamo insieme
mentre guada le nuvole
passa in rassegna le stelle.
Quanti anni mi restano?
Quanti anni sola guarderai la luna
in un lieve sospiro ricordandomi?

Dell’imbrunire
Un sogno estivo
agitò le ali azzurre nell’aria,
librandosi cercò di raggiungere
la volta infida del cielo,
non trovandovi appigli ricadde
sulla terra inospitale.
Lanciando all’intorno disperati segnali
il sole andava sprofondando lentamente
nelle sabbie mobili dell’orizzonte.
Al largo
una scialuppa vagava ai cui bordi
s’aggrappavano in disordine
ricordi sopravvissuti a un naufragio.
In alto le nuvole rosse
illividiva un diffuso pallore,
un lutto
abbrunava la sera.

Ricordi
Non è possibile
dimenticare la terra, i suoi gemiti
d’amore, i suoi sussulti
d’animale ferito, il desiderio di vita
che ci prendeva alla gola.
Ed il viale gentile che sgorgava
fiorito e puro
dai fianchi dolci del monte
ora invade lo smog velenoso
ed i molti ricordi: tu eri
una fanciulla in fiore
che il suo fiore l’offriva
a un vecchio ricco e volgare e
c’era un’osteria a tirar l’una di notte
sotto la compiacenza degli orologi
e gli amici con cui mescolare
il vino le carte la sorte,
sotto un grande castagno
la mia casa che sorrideva
con le sue bocche di rosso geranio.
Là sulla soglia un profumo
di muschio e di donna, nel sole che avvampa
la tua ombra sottile che danza.
In cortile, grigio muro del mondo,
i ragazzi come gridavano
scagliando la palla contro il tramonto!
Ed io già conoscevo
che la vita era solo un miraggio quando
proprio là sulla strada lo schianto
e la fine del viaggio.
Lo so che i ricordi dei morti
sono epigrafi brevi
che soltanto il silenzio è pace
ma io non ho tomba sono
cenere che il vento sparge e la sua voce
è la mia voce che ricorda
e poi tace.

Forse la poesia
Non canta più la Tua gloria
l’ombra fedele
sotto l’alte navate profanate
dove un’orda di turisti in jeans
mostra spavalda
la sua nichilitate.
Esplode improvvisa una luce
abbagliante che illumina a scherno
le statue oranti che levano il volto
pensoso e persuaso all’Eterno.
Fuori
è lo smog velenoso, il rumore
sordido della città che produce
la vita violenta che preme, che odia,
la morte ignorata, nascosta,
in controluce.
Ogni cosa, ogni uomo che incontri
ha un suo calcolato costo.
Nessuno più aspetta nessuno.
Quaggiù per Te non c’è posto.
Fuggii dalla città che bruciava
all’ossidrica fiamma del tramonto,
da un’ambulanza una sirena gridava
la paura di essere al mondo.
Cercai rifugio in un bosco
funebremente annerito dal fuoco, da tutti
dimenticato.
Nel silenzio un uccello cantava,
lui forse T’aveva trovato.

Il dolore
Vado e il dolore
mi segue per via, ombra tenace
servo fedele mi spia
e non mi dà pace.
Apre la porta della casa entra
dietro di me quasi inavvertito
prende le sembianze del passato
mi osserva lungamente intenerito
con i suoi occhi umidi di pianto.
E se cerco sollievo e con diletto
guardo il tuo dolce sguardo innamorato
lui indiscreto mi prende in disparte
e mi ricorda il tempo che trascorre
e chiede che sarà della mia arte.
Quando salgo in vettura con un balzo
come un cane si siede al mio fianco
e basta un suo latrato a ricordarmi
che in ogni curva la morte è in agguato.
In ufficio rovista tra le carte
si nasconde, non vuol farsi vedere
ma io avverto quest’ombra che s’insinua
si assottiglia e si allunga fino al cielo.
Ormai vecchio a Dio volgo il pensiero
e offro gli anni che ancora mi avanzano
ma il dolore ne oscura il Volto e vedo
in questa eclissi
svanire ogni speranza.

Stagioni
L’autunno sta all’inverno,
calunniata stagione,
come al sonno benefico
il crudele morire. E tuttavia
al primo quieto suo volgere
una dolcezza rassicurante ti guarda
dai cieli profondi velati di mistero,
risplende lieta di luminosi colori
– il giallo e il rosso vi dominano – inventa
la danza gentile dei boschi al suono
di delicate brezze.
Ma ecco un brivido lungo
percorre il caldo corpo della terra
e quanto in essa alita e spera atterrisce;
la dorata eredità dell’estate sconvolgono
la cupa minaccia dei tuoni, la saettante folgore,
proni i rami alla terra si piegano
sotto la sferza feroce del vento.
Quando un cielo illividito squarcia
improvviso i suoi veli, s’apre
in buie voragini, in piogge scroscianti
s’avventa con odio
contro ogni forma di vita.
Allora la promessa tradita scopre
le ragioni dubbiose del cuore, l’uomo
scava in se stesso l’ulcera
tormentosa delle domande senza risposta.
Ora l’autunno, riposto il furore,
con fredda determinazione dà corso
al suo operare più subdolo
ciò che ha percosso avvolge premuroso e scolora
con fitte nebbie e diffusi umidori, lo senti
per i cunicoli della terra, sul fondo dell’anima
che passa, che striscia e al suo viscido tocco
si degrada, imputridisce il mondo. Così
senza combattere, senza rumore, lentamente
tutto, dentro e fuori di noi, s’arrende
e muore.

A Maria
Non so se le tue lacrime di statua
siano vere o un ignobile inganno
osò, madre,
il tuo dolore profanare.
Ma so che sono lacrime sincere.
Piangono la morte senza fine
del figlio amato che generasti
per volontà del Dio che si nasconde,
per tua sublime, tua tremenda sorte.
Piangono il dolore di coloro
che come Lui morirono
sulla croce dei giorni invocando
«Eli, Eli» e non furono salvati; dei viventi
che vagano nelle grandi valli d’ombra
abbandonati.

Osmosi
Un uomo se ne va per la campagna
e la campagna se ne va con l’uomo,
i fossi colmi d’ansia e di dolore.
A notte la muta dei pensieri insegue
i lunghi treni che fuggono tetri
con uomini crocifissi dietro ai vetri
tra gli odori ed il fresco di campagna.
Appostati nell’alba dietro un masso
(erboso altare per un rito vano)
seguiamo il volo degli uccelli di passo
e diventiamo uccelli che dall’alto,
stranieri al mondo, guardano lontano.

Cuma
Allora
come in sogno m’apparve
l’antro dell’antica Sibilla
le pareti geometriche splendenti
di alte fiamme di luce. Il colle
di Cuma s’ergeva con i ruderi
biancheggianti tra il verde
opaco dei vigneti e l’abbagliante
sguardo azzurro del mare, Enea e Virgilio
insieme guidavano una danza
religiosa di scheletri fino
al curvilineo lido che accolse
le navi scampate all’incendio. La voce
profonda della Sibilla diceva
l’onnivoro Crono che ancora
con l’acqua ed il fuoco imprigiona
la licenziosa opulenza,
la dissennata superbia consuma
della sonante Baia, ma Cuma
la pia Cuma non salva, le istoriate porte
del tempio contemplate da Enea,
le annerite, silenziose mura.
Sotto l’Arco Felice
guardavo altro tempo trascorrere in fretta
avvolto nel grande manto del vento, pensavo
all’intatta grotta oracolare, al sacro
mistero della poesia che dura.

Il castello di ghiaccio
Io sono qui assediato
in questo castello di ghiaccio
pendono dagli alti soffitti
stalattiti acuminate domande
alle pareti specchiere abbrunate
nel ventre opaco conservano
– reliquie o relitti – le immagini
della vita trascorsa.
Ho messo guardiani a tutte le porte
bianchi fantasmi difendono
le chiuse finestre, ma voi
voi sapete entrare, presagi
infausti e ricordi con
il subdolo strisciare dell’ombra
e un sapore di sangue e di morte.
E mi portate in dono ignominia e
il sordido bisbiglio dei rimorsi
io che vorrei contemplare il mattino
che sorge puro dai monti.

Il linguaggio
«Sono il Signore Dio tuo, il linguaggio
senza di me non sei niente».
Non so se sia vero o se mente
ma lo porto con me nel mio viaggio.
Parla poco, non so cos’ha in testa
quasi amabile, d’un tratto esigente
sembra fatto di tutto e di niente
ma è poi lui che comanda e che resta.
È impossibile prender congedo
mi trattiene, trova sempre a ridire
ora è schietto, ora timido e oscuro
muta il mondo, ma non vuole apparire.
Parla come parlasse oltre un muro
io lo intendo e più non gli chiedo.

Presagi
Le prime foglie cadono
si posano sulle mie braccia
nude, messaggio
che manda l’Altrove
sillabe del suo linguaggio? La morte
va imprimendo nel cuore
il suo tetro tatuaggio.
Scendono le foglie, ma volando
ancora, come fanno
i poeti
alla fine del viaggio.

Tracce
Chi abita le rive scoscese e incolte
di questo fiume di acque torbide
dove impaziente passò un giorno la Storia
e un condottiero che pagò col sangue
di molti morti un’effimera gloria? Luoghi
anch’essi dimenticati dove arbusti contorti
sterili di frutti e privi persino di un nome
sembrano crescere senza ragione
dalle invisibili radici del niente.
Ma all’interno del fitto sterpeto
in cui ogni guado è segreto
e che sorvolano con spavento
gli uccelli di passo ed il vento
si scorge a volte, nei brumosi mattini,
un’orma leggera che s’indovina
di qualche anima penitente
perché non comincia o sconfina
in altro luogo dell’esistente.
O forse è una piccola traccia
lasciata per noi dal dio assente
quando esce improvviso nel tempo
dal vuoto castello del suo silenzio.

Ritratto
Un uomo sempre vecchio e sempre nuovo
che va gridando io io io
un folle in bilico nel vuoto
tra il Nulla e Dio.

Cantico delle creature
Dalle valli d’oblio
impenetrabile nebbia
il gran sonno dei morti
che Tu infrangi risorto
scoperchiando le tombe
dove stiamo al riparo
dalle offese del mondo.
Pietà, pietà di noi,
Signore onnipotente,
siamo stanchi di prove,
di promesse, di attese,
lasciaci
al nostro niente.
Una vita ci basta
che fu di tormenti,
non vogliamo altri sogni,
altri regni, altri eventi.
Metti fine alla Storia,
torni a splendere in cielo
solitaria la Gloria, cancellaci
per sempre dalla tua memoria.

La visita
Lo avevo tanto invocato
ed è venuto davvero
(per puro caso io c’ero
più non v’avevo sperato)
si è chinato sulle mie carte
ha corretto qua e là con lo sguardo
poi mi ha preso in disparte
tu scrivi troppo il mio nome
non sempre con giusta intenzione
se avessi il taccuino davanti
ti direi i tuoi anni restanti
i ragazzi troveranno un lavoro
(ha sorriso paterno anche a loro)
ti ho risolto un problema di cuore
poi con aria di circostanza
adesso ispeziono la stanza
ha spostato i quadri gli oggetti
ha messo a soqquadro i cassetti
sembrava che cercasse qualcosa
io volevo fargli tante domande
dirgli il mio amore esitante
senz’ardire di guardarlo negli occhi
posando il capo sopra i suoi ginocchi
ma ora lui andava di fretta
ho tanti santi in sala d’aspetto
mi raccomando alla sera
ricordati della preghiera
forse mi ha salutato, io
in punta di piedi
piangendo me n’ero già andato.

Il rospo
Pini e luna con rami d’argento
si chinavano sull’acque tremanti
alla calda carezza del vento. Mite
lo sciabordio del mare tratteneva l’onde
come sospiri di una serenata
a una tenera divinità. Sussurri
dall’ombra
delle panchine smemorate. Le lampare
accendevano piccoli fuochi
a un orizzonte familiare.
Amorosa regia. Dal cielo
glorioso d’astri scendeva
persuaso il così sia.
Quando una voce si levò altissima
da una pozzanghera in mezzo alla scogliera,
agghiacciante d’un rospo invisibile,
parve bestemmia durante una preghiera.
Al cospetto di Dio e del creato
gridava la protesta dell’escluso,
l’illusa
volontà di canto, il suo deriso
desiderio d’amore. Era
una creatura disperata
che ci gettava in faccia il suo dolore.
A lungo durò lo strazio di quel pianto
sconsolato di non sentirsi in armonia,
aspro verso affannoso come il rantolo
d’una moderna poesia.
Tacque alfine l’intruso. Su uno scoglio
apparve a un tratto, ridicolo e impotente.
Nero, enorme, splendente, il Cielo
giocava ancora con lui, lo fissava
– le pupille socchiuse –
festoso e indifferente.

Quando
Quando le tue palpebre
ali stanche si chiudono
appena palpitando e un cielo d’oro
appare ai tuoi grandi occhi innocenti
io che in quel cielo specchio il mio futuro
e ciò che resta a me della mia vita
nel respiro-sospiro
che ritma i tuoi sogni adolescenti
odo il fruscio trepido e mite
delle spighe odorose nei campi
se le visita il vento e piegano il capo
biondo agli orizzonti esitanti.

Ricordo di Berlino
Pigramente
la città si ridesta.
Bisbiglia
sbadiglia (più tardi canterà)
la madida foresta.
Gioiosamente
l’aurora insegue l’alba.
Giocano
tranquille (guance di rose e gigli)
sotto la mia finestra.

Passeggiata di Nervi
La notte estiva
con il suo caldo manto avvolgeva
brigate festose, trepide
coppie d’amanti.
Fingevano di guardare le stelle
così distanti.
Nel porticciolo spalancate alla brezza
le barche. Assente la luna
secondo il suo calendario di ferie.
Le nicchie d’ombra erano profonde
fatte apposta per
ragazze serie.
Voci sussurrate, sospiri, gemiti
ma non di tristezza. Musiche liete
portava il vento, il pitosforo in fiore
esalava intorno
il profumo ardente
della sua sete.
Si scambiavano segnali. Lampi
attraversavano il cielo, illuminavano
discreti. Immobili lampare
accendevano piccoli fuochi
sopra le tremule
acque del mare.

La speranza
La speranza si è rifugiata nella stiva
di un vecchio e arrugginito bastimento
tra le grida soffocate e i lamenti
di un popolo stremato e fuggitivo.
Vanno verso luoghi sconosciuti, invocano
un dio che non li ascolta.
Sulla terra che ci ha partorito
noi li attendiamo sgomenti, sapendo
che i nostri granai sono colmi, ma vuoto
è il cuore e la mente.
E ci aggiriamo smarriti
tra i fuochi
che ad uno ad uno si spengono,
tra gli avanzi
di banchetti opulenti e vane
dichiarazioni d’intenti.
Dal mare turbato, verso di noi avanza
una moltitudine che nulla possiede
se non il palpito
della speranza.

Dove ti vidi
A mezzanotte aprirai la finestra
ed io pure per guardare la luna
è come un rito che ci accomuna
una lunga abitudine mesta.
Perché abitiamo in paesi lontani
nel mistero d’emisferi diversi
ci siamo un giorno incontrati e poi persi
ricordo il volto e le morbide mani.
Tutti i giornali del mondo e altri ancora
ho consultato in cento stagioni
inutilmente cercando il tuo viso
inutilmente invocando il tuo nome.
Anche Tiresia veggente di grido
non sa indicarmi la tua dimora,
sulla luna dove forse ti vidi,
disse, è l’incontro del vostro amore.

Celar (Titolo in provenzale)
Nato nell’ombra
acerbo amore occorre
che tra il fitto fogliame ti nasconda
desïato frutto che l’aguzzo becco
degli uccelli in agguato non divori.
Tu vorresti la luce, ma è pur dolce
apparire e sparire mentre il sole
penetra con i lunghi raggi l’ombra
e giorno dopo giorno il frutto indora.

Come le castagne
I
Come le castagne
sgusci nell’autunno
l’estate
ti ha risparmiato i suoi dardi.
Intatta e lucente
dal tuo guscio di verde
pungi le mani, indifferente
fra brume e foglie
rotoli via silenziosa
t’allontani…
II
Amorevol
mente il tuo cuore mi lascia
per sempre una foglia
si stacca
canti e pianti tra i rami.
III
Dove sei?
La luna di primavera
per gli spazi siderei lentamente
quieto dromedario dei cieli ti riporta
a me, già t’allontani
sulla sua gobba lucente.

Per un’amica convalescente
Tu sei le tue grandi ali dorate
e la tua nudità senza paura
sei l’angelo
che allontana il male
in te sogna in te ride la natura.
Tra i sapienti del mondo si discute
se tu sia umana o divina fattura
ma il dolore che hai scritto nella carne
oggi ancora t’affanna, prego il Cielo
da cui vieni che di te abbia cura.

Il tempo e il canto
Come ti ha cambiato il tempo,
mio piccolo rosignolo!
Di te è rimasto soltanto
il canto
che accompagna il tuo volo.

Sera estiva
a C.
Senza di te
sono un vecchio triste signore che vaga
per le strade cittadine con al collo
un’assurda cravatta
tra turbe sbracate che gridano
un’allegria impudica e i rumori
spietati delle macchine spiando
con terrore i grandi occhi
impazziti dei semafori scansandosi
frettoloso inciampando
a ogni passo in ricordi non osa
alzare gli occhi al cielo per paura
dello scheletro bianco che insegue
lui solo tra la calca mentre parla
vanamente a se stesso
un sonnambulo
che sogna d’incontrarti.

2 novembre
Perché i ricordi
hanno voce di silenzio
e il pianto è un fiume
che non fa rumore
ma giorno a giorno scava il suo letto
nei detriti
del cuore.
A te che mi ricordi offro il sussurro
che fanno l’erbe trepide ed i fiori
sotto il verde ricamo delle fronde
mentre il mare trattiene il suo respiro
e il tuo passo è leggero
fra le tombe.

I colori del mondo
Di notte io sono la notte
che fonde i colori del mondo
che tiene tra le sue braccia
l’esanime corpo del giorno.
Di giorno io sono il giorno
che risorge e risplende
giocando con l’ombre e poi torna
con tremito lungo alla notte.
E tu sei la mia vita
che ama e non trattiene
il guizzo della luce
quando si spegne.

Come se
Cara,
mi chiami dall’aldilà come se
esistesse davvero e non fosse la parte
più desolata dell’anima dove
i ricordi-rimorsi s’inseguono senza tregua
in mezzo alle tombe abbandonate. Ancora
la morte invoca la vita e questa chiama
la morte a consolarla, entrambe figlie
di un dio che non ci ama.
Felice chi
con il pensiero ha soffocato il tempo, tetro
sicario dell’eterno, nero vento.
Amica
che mi fosti accanto
non puoi portarmi nuove
né io a te. Neppure attese
ormai
neppure il pianto.

Prima che svaniscano
Sull’asfalto fioriscono improvvisi
i bianchi anemoni
della battente pioggia.
Li contempliamo muti mentre danzano
diafani e fuggitivi, te li offro
come il mio amore prima che svaniscano.