La vita affievolita


Calandrino
Chiederanno «come va», scherzerai
«da poveri vecchi», spiando
sulle labbra una smentita
sempre meno frequente. Quando
le giovani donne ti renderanno il saluto
con frettolosa deferenza e il posto ceduto
sarà un’impietosa sentenza. O in casa
(dopo l’ultimo nato, sei l’ospite
che si è attardato)
se una battuta dirai un po’ vacua o parole
di cui non intendono il senso,
come vivere la propria morte
o udir la Voce nel vento,
ti gelerà un sorriso
acre
di compatimento.
Fin che
(se il tuo cammino di vivo
proseguirai ostinato oltre la linea d’arrivo)
cancellato dagli sguardi e dai cuori, forse
annebbiata la mente, Calandrino intristito
t’aggirerai invisibile in mezzo alla gente.

Preghiera della notte di Natale

E ormai la terra
altra messe non dà…
(A. Manzoni, Adelchi, atto V)

Dio che sei forse nei cieli,
grande ombra affacciata
dietro una luminaria di stelle,
è sola e perduta questa Europa che veglia
le dita contratte su gelide
tastiere di morte.
La luna ambigua rischiara
la quieta selva di missili, un volo
di colombe si leva,
esita alle tue porte.
Navigano
nella notte le tue chiese d’oro,
ancora splende tra gli incensi la gloria
degli altari consacrati
che hanno fatto la storia.
Poi nel sonno
un vento di campane ci sorprende
s’inalba una visione torna
il sogno di Natale: che tu scendi
dagli astri verso un muto altare
d’occhi e di lacrime, ancora cerchi
uno scampo all’orrore, un rifugio innocente.
O figlio
nostro che rinasci e tremi
Dio atterrito che gemi
con noi
sopra lo strame dell’anima.

Veglia
Amico, già distende il tuo volto e rasserena
l’etrusco sorriso della morte, acquieta
mestamente il mio pianto. Ma chiedo
di questo tuo sorriso se l’accenda
l’ultimo guizzo della terrestre sera,
un raggio ancora
dell’astro fiammeggiante che dilegua,
o mite un’alba d’anime risplenda
che tu scorgi e dirama in altro cielo.
O forse è soltanto il fisiologico
sorriso della materia che riposa
e prepara altra forma, indifferente
se un muride o una rosa.

Tramonto
Del vino per i morti,
vino, vino versate
nei campi, negli orti,
sull’umide zolle viola
come le labbra viola
dei morti.
Vino per questi serali bivacchi
di ombre all’orlo
degli orizzonti,
rosso trabocchi
dalle azzurre conche
del cielo, in coro
cantano le gole rauche
dei monti.
Mantelli rossi, mantelli neri
vuoti nell’aria
danzano attorti
soltanto le mani si scorgono
che grondano cielo
in questi tramonti
assorti.
Voi che vivete,
mescete versi
inebrianti e forti
come un vino genuino che riscaldi
la lunga notte che imprigiona
i morti.

Per trovarti
Per trovarti ho lasciato,
Padre,
il quieto rifugio del certo.
Mi sono lanciato nel vuoto
con un paracadute
che non si è aperto.

Felicità
Forse felicità è in questo
allegro spaccato di un’anguria
nel rosso che sgocciola e ride con te
bocca acerba, denti candidi e aguzzi.

La vita affievolita
Viene il tempo della vecchiaia.
Non la folgore che schianta,
ma una timida sera
striscia
di cosa in cosa, s’insinua
tra le crepe dell’esistere e gli alveoli
lamentosi dell’anima. Si scusa. Umilmente
occupa il mondo.
Tu contempli in silenzio, come odiare
questa miseria d’ombra che ti stringe
materna fra le braccia, t’assopisce
in una infanzia nuova senza sogni.
E ti vieta anche questo, di soffrire
per te, per lei, se ogni ora che resta
scolorando consola di morire.

A un crocifisso
Ex voto, cuori d’argento,
un cuore d’oro,
nessuno che palpiti per te,
Signore. Lungo
la tua morte senza fine
ti martellano i chiodi
del chiedere ed insistere, impietoso
nostro modo d’esistere.
La moneta
consueta di chi riceve un favore
è la querula attesa d’altro dono,
maggiore. Non altro
è ciò che in terra
ha nome gratitudine.
La corona di spine
è la tua solitudine.

Nel mondo
Nel mondo c’erano
due occhi grandi
nel mondo c’erano
due occhi neri
dilatavano lo spazio
ardevano come ceri

La luna

Ma ditemi, che son li segni bui
di questo corpo, che là giuso in terra
fan di Cain favoleggiar altrui?
(Dante, Paradiso, canto II)

I
Poi che Dio creò la terra,
la vide femmina e bella,
curve dolci, solchi profondi,
seni aguzzi e rotondi.
«La darò in sposa al sole
perché la scaldi e fecondi».
Per molte ore la terra
del caldo sposo fu lieta,
ma quando il sole disparve
s’abbuiò tutta, divenne inquieta,
anche Dio ne fu turbato,
ma non poteva senza contraddirsi
cambiare leggi al creato.

II
Pensò di donarle uno specchio
perché vi mirasse il suo aspetto
e dallo schermo seguisse lo sposo
nel suo cammino solitario e ascoso.
Mite la luna riflette
il lontano splendore
dell’itinerante sole,
muta la terra contempla
nel cielo, fra tante
raggelate bellezze
le sue viventi fattezze
palpitanti dietro il bruno velo.

III
Seguirono prodigi e mutazioni
e amori ardenti e generazioni,
poi come nebbia si levò la Noia,
in terra sibilò una sassaiola,
così per gioco cominciò la guerra
e nacque Morte, malvagia sorella.
Giorno a giorno più opaca la luna
più non riflette il pianeta in sfortuna,
lassù tra l’ombre, invocando la fine,
vaga Caino col fascio di spine.
Prega la terra il suo buon Creatore
perché le renda lo specchio e l’amore.

IV
Come un serpente si drizza nel cielo
alta una torre di mille gradini,
chiedono in coro la terra e i suoi figli
di conoscere gli arcani destini.
Ma Jahvè lesto le lingue confuse
l’impresa è noto che mal si concluse.

V
Così nel Testo. Che va aggiornato.
Una notte, un veicolo alato,
mosso da ingegno e da dubbia fortuna,
tra grandi okay e masticar di chewing gum
superbamente planò sulla luna.
E in quella teschiata pianura
la terra conobbe specchiata
se stessa
la sorte futura.

In morte
Sposavi l’alba
dei tuoi lievi anni
al mio tramonto mesto.
Solo io resto
piagata sera.
La notte
copre la terra
con la tua chioma nera.

Cantico del drogato
Perché non esisti
mi drogo
perché Tu esista
anche solo per gioco
perché torni ad ardere,
o spento mio Fuoco,
per odio, o Dio,
perché ti agogno
perché ho bisogno
di un sogno
levo in alto la siringa
diafana al cielo
che par fibrilli e stinga
(così sbiancò un volto in famiglia)
con le mie, altre braccia scarnite
in corale erezione
(scoprì il mio braccio
e vide in un grido
la luttuosa costellazione)
nel corpo, nell’anima aborrita
più in fondo
ero, o eros eroina che togli
i dolori del mondo,
sciolgo il laccio sottile che stringe,
di deliranti perché, la mia vena
azzurra che pulsa
a Te che chiami, al gelo
della Tua ripulsa,
poi nel vuoto precipito di Te.