Il viaggio


Il viaggio

Però amo quelli
che vagano sul fondo dell’anima
non per volontà ma sospinti
da una loro frana improvvisa
senza torce non scorgono che fantasmi
temono e desiderano di risalire.

Ora siete in molti ad attendere
che dopo avervi destato
alzi le spalle, uomo
che troppo bene conosce il mondo e lo liquida
rassegnato: «Requiescat». E d’improvviso vi parli
della pasticceria sulla Nevski, della patronne
che invecchia a Bolzano o di altre
malinconiche scorie della memoria; o frugando
come d’uso tra le viscere delle parole ne tragga
oscuri vaticini privi di senso.
In verità,
sono troppo vecchio per divagare.
Prima
di sottoporre voi e me stesso
a questi equilibrismi raffinati, invoco
lettori meno esperti, menti fanciulle, sebbene
conosca i rischi di affidarmi
a così improbabile innocenza. Neppure
tento di esorcizzare gli sbadigli
di chi tiene l’anima sospesa
al chiodo del prossimo week end e per questo
trova molesti allo stesso modo
gli strepiti degli oppressori i pianti degli oppressi,
guarda come sospetto ogni moto
fuori dall’orbita del quotidiano. Costui
portando le musicassette alle orecchie non ode
il passo della vita che s’affretta
all’ineludibile appuntamento; escluso
dalle emozioni del viandante possiede
la felice spensieratezza del turista
che tutto vede e nulla sa
impenetrato dal dubbio, incrollabile nel rifiuto
di qualsivoglia fatica della mente.
Ma ora io tento
di trascinarmi con voi dentro un tunnel
in fondo al quale s’apre forse un orizzonte
piuttosto che farvi da erudito cicerone
per città costruite con gli scavi di molte altre e d’un tratto
spararvi a tradimento un «in short shall we look for a deeper
or is this bottom?» So bene
che nulla è più divertente per il Maligno
di un’avventura dello spirito e che anzi egli è solito
nascondere il suo terrificante esplosivo
dentro i bagagli delle buone imprese
e che da ultimo i più accorti non usano
affrontarlo a viso aperto, ma seguono
la tattica della sortita improvvisa
ben mimetizzati dentro
i suoi stessi panni variopinti o trincerati in un
laboratorio di stili o in boschetti
cinguettanti di parole.
Penelope saggia tesse ancora
nella stanza sul mare la sua tela.
Non ha notizie
dello Sposo lontano.
Pur l’industriosa stoffa e risplendente,
aggiunti pochi fili e ricomposto
ogni volta l’ordito, antica e nuova
oppone alle follie dei Proci, serba
così se stessa, l’anima.
Dio si è raccolto pensoso in
un angolo remoto del cielo
nella gloriosa maestà del silenzio
mira non mirato: in terra
nulla di cui s’allieti.
Brulica
nel grande campo la stirpe
tracotante di Adamo, avvampano
luci accecanti, in roghi immani
si torcono i boschi, si prosciugano
i fiumi, già si spengono
a uno a uno i mille sguardi del mare.
Una roccia si è staccata che era
la salda certezza della mente, rotola
in un bianco d’occhi lungo i fianchi
gravidi di morte, alta, severa
la sua groppa d’ira che abbatte le dimore
dei viventi e dei morti, rompe gli argini
maestri, un cupo suono corre
le vallate del cuore, i verdi prati
sommerge un odio limaccioso e cieco; ora nel campo
già fiorente di messi imputridiscono
i semi della speranza terra e acque
copre impietoso un sudario di fango.
Se in una frase, nel ricordo dei figli,
se tra le pagine visitate dai tarli
di una contesa antologia.
Ma sopravvivere.
E il canto
sommesso muta in lamento
gorgogliato di onde e naufraghi aggrappati
alla scialuppa fragile della memoria smarrita
di chi resta e altre voci
ode salire più forti
con l’impeto di una sbocciata vita.
Forse
neppur della specie orgogliosa,
di te, homo sapiens,
resterà un giorno ricordo.
Ad altre specie…
non tu
lucida pazzia che violenti
la natura e corrompi
la tua stessa semente.
Più non s’udrà tra cielo e terra il canto
del cieco aedo che spiegò le vele
per un ardito viaggio oltre il Destino
e di colui che il compimento umano
vide nel cerchio dell’Amor divino?
Quaggiù tra i nuovi mortali miasmi
nessuno più che si conforti al riso
che vinse il morbo e dissolse i fantasmi?
Sognai Dio che fuggiva,
la terra gli franava sotto i piedi, il mare,
i fiumi uscivano dal loro letto, tremando i monti
precipitavano dai loro cardini, robot
impazziti lo inseguivano
con lunghe lingue di fuoco, “chiuso per morte”
sui portali dei templi, le porte
delle case, gli antri dei boschi
gli si chiudevano dinanzi,
sgretolandosi, accartocciandosi il creato
nelle tenebre s’avventava contro di lui.
Egli verso di me correva, d’improvviso
fattosi colomba d’aria, battito di luce
si confondeva al battito
impazzito del cuore.
Quante stelle sparite nei cieli
e cari amici caduti lungo la strada
quante morti dovremo morire
per affrontare la nostra morte. Muovono
le infinite strade
dell’Oriente e dell’Occidente verso un punto
sconosciuto d’incontro.
Abbiamo attraversato i deserti
a lungo vi abbiamo sostato
Straccioni, Profeti, Poeti, nulla
insegna più del Nulla,
nostro maestro, immagine d’eterno.
Nel libro della vita non è lecito
saltare a piedi pari le parentesi:
i ripostigli ombrosi ove si celano
le quiete giornate senza storia, i sapidi
avanzi dei conviti, anche sovente
le sagge provviste del futuro.
Farsi chiudere
dimenticati per sempre in questi umili
rifugi dell’esistere è arte
povera, ma resiste; se non salva,
amico Giorgio, almeno consola.
Ma per chi non s’acquieta a questa sorte e insegue
tra gli abissi ed il cielo
la verità d’un sogno, infine scende
nell’oscura miniera ove in attesa
sta l’Enigma ed incombe
l’insidia del mortale grisou, altro non resta
che il vacillante lume della mente
o il filo d’Arianna che conduce
alla soglia del tempio. (Ma Dio forse
è altrove, entro lo scavo più profondo, accanto
alla trepida lampada che esplora).
Qui nello slargo ove s’apre l’ingresso
all’ultimo cunicolo
ancora una sacca d’aria resiste e lontano
il sordo rumore dei martelli risuona
(forse lo copre – tu dici – il rumore dei passi
cauti dei soccorritori
tra frane improvvise e detriti).
Qui si può attendere, insisti,
i soccorsi. Con fiducia, parlando
di corse, di libri, di donne,
di cose volubili e lievi. Ma io
che l’arte
non conosco del vaticinio, né amo
esorcismi di chiacchiere (rifiuta
l’anestesia, rifiutala, di questa
si muore più che di bisturi) a quelli
che mi seguono dentro
la cupa strettoia non dico
salvezza ma solo
cercare noi stessi una strada una sorte
diversa ed il rischio
di rimanere per sempre smarriti.
Entriamo, non curando gli addii,
la lampada incerta rischiara
il fondo vischioso, grottesche
ombre proietta alle stillanti pareti, stridendo
dal fondo si staccano muridi che poi ci accompagnano
guide solerti ed infide. Ancora
scendiamo affondando
i piedi nell’acqua melmosa, più oltre
l’oscena carezza lambisce
i nostri rabbrividenti ginocchi. Si fa
irrespirabile l’aria, il lezzo sale
con l’acqua, preannuncia la visione
orrenda al giro del cunicolo: un corteo
galleggiante di cadaveri che sfilano
gonfi d’acqua, goffe zattere che portano
allegre ciurme di roditori.
Poi dalla mano tremante cade in acqua
la lampada preziosa, perduta
per noi ogni speranza?
È quando
dalle tenebre fitte ci sorprende
una luce improvvisa, tinge l’acqua, striscia
guizzo che accende le pareti. Un grido solo
e piangendo ci slanciamo
verso il fiotto di vita, all’agognato
terso sbocco del tunnel.
Ahi che lo chiude
un cancello di ferro, inutilmente
a lui s’avventa il vigore superstite.
Tendiamo
le mani oltre le sbarre ove una rosa
inclina il delicato collo, votiva
offerta allo splendente Cielo; il sole
che nasce e sconosciute stelle una frammista
luce, cui lo sguardo non regge, sulla terra
spandono di rubini e zaffiri e ametiste.
Nell’aria il trillo acuto
degli uccelli risponde al suono grave
dei calmi fiumi che scendono alla foce,
grandi versi mai scritti e sovrumana
una musica d’arpe li accompagna.
«Siete arrivati» grida,
mentre scuotiamo con furia il cancello,
una voce non so se beffarda od amica.

GUIDO ZAVANONE

LE VOYAGE

Préface de Giorgio Bárberi Squarotti

Trad. di Monique Baccelli

Mais j’aime les autres
qui gisent au fond de leur âme
non par décision, mais forcés
par un intime et subit éboulement
sans torche ils ne distinguent que des fantômes
tout en le redoutant ils désirent remonter.

LE VOYAGE

Maintenant vous êtes nombreux à attendre
qu’après vous avoir réveillés
je hausse les épaules, homme
qui connaît trop bien le monde et résigné
le liquide : “Requiescat”. Et que tout à coup je vous parle
de la pâtisserie sur la Nevski, de la patronne
qui vieillit à Bolzano ou d’autres
pâles scories de la mémoire; ou qu’en fouillant
comme d’habitude dans les viscères des mots j’en tire
d’obscures oracles dénués de sens.
En vérité,
je suis trop vieux pour divaguer.
Avant
de vous soumettre vous et moi
à ces exercices raffinés, je demande
des lecteurs moins experts, de jeunes esprits,
tout en connaissant les risques de me fier
à une aussi improbable innocence. Je ne tente
même pas d’exorciser
les bâillements de qui a l’âme accrochée
au clou du prochain week-end et de ce fait
trouve aussi fastidieux
les pleurs des opprimés que les clameurs des oppresseurs
et regarde comme suspect tout geste
échappant à l’orbite du quotidien. Celui qui,
ses écouteurs sur les oreilles, n’entend
plus le pas de la vie qui se hâte
vers l’inéluctable rendez-vous; exclu
des émotions du voyageur il savoure
le bonheur insouciant du touriste
qui voit tout et ne sait rien
fermé au doute, inébranlable dans le refus
de tout effort de I’esprit.
Mais maintenant je vais tenter
de me traîner avec vous dans un tunnel
au bout duquel s’ouvre peut-être un horizon
plutôt que de vous servir de savant cicerone
dans des villes construites sur les ruines de
beaucoup d’autres et tout à coup
vous lancer en traître un “in short shall we look for a
deeper
or is this bottom ? Je sais bien
que rien n’est plus divertissant pour le Malin
qu’une aventure de I’esprit et que souvent
il place son terrifiant explosif
dans les bagages des bonnes intentions,
que pour finir les plus avisés n’osent pas
l’affronter à visage découvert, mais utilisent
la tactique de la fausse sortie
bien camouflés dans
leurs habits bariolés ou retranchés
dans un laboratoire de styles ou dans un bosquet
pépiant de paroles.
Mais la sage Pénélope tisse encore
sa toile dans la chambre donnant sur la mer.
Elle n’a pas de nouvelles
de son lointain Epoux.
Pourtant l’industrieuse étoffe resplendit,
peu de fils ajoutés et chaque fois
la trame recomposée, ancienne et nouvelle,
elle s’oppose aux folies des Proci, et se garde
ainsi elle-même, l’âme.
Dieu s’est recueilli pensivement
dans un coin reculé du ciel
dans la glorieuse majesté du silence
il voit sans être vu: sur terre
rien qui ne puisse le réjouir.
Elle bourdonne
dans le grand champ l’arrogante
race d’Adam, flamboient
des lumières aveuglantes, en effroyables bûchers
se tordent les bois, tarissent
les fleuves, déjà s’éteignent
un à un les mille regards de la mer.
Un roc s’est détaché qui fut
la ferme certitude de I’esprit, il roule
en un clin d’oeil le longs des flancs
lourds de mort, haute, sévère
sa croupe furieuse qui abat les demeures
des vivants et des morts, rompt les berges
maîtresses, un son funèbre parcourt
les vallées du coeur, une haine aveugle et gluante
submerge les vertes prairies; maintenant dans le charnp
déjà fleuri de moissons pourrissent
les semences d’espoir un suaire de fange
recouvre terre et eau.
Si dans une seule phrase, dans le souvenir des fils,
si entre les pages visitées par les vers
d’une anthologie disputée…
Mais survivre.
Et le chant
étouffé change en plainte
gargouillante de vagues et de naufragés agrippés
à la chaloupe
fragile de la mémoire égarée
de ceux qui restent et entendent monter
d’autres voix plus fortes
avec la vigueur d’une vie éclose.
Peut-être
même pas de l’orgueilleuse espèce,
de toi, homo sapiens,
restera un jour le souvenir.
A d’autres espèces il est donné…
pas à toi
lucide folie qui violentes
la nature et corromps
ta propre semence.
Peut-être
n’entendra-t-on plus entre ciel et terre le chant
de l’aède aveugle qui largua les voiles
pour un aventureux voyage au-delà du Destin
et de celui qui vit l’accomplissement humain
dans le cercle de l’Amour divin?
Ici-bas parmi de nouveaux miasmes mortels
plus personne ne se réconfortera-t-il au rire
qui triompha du mal et chassa les fantòmes?
J’ai rêvé que Dieu s’enfuyait,
sous ses pieds la terre s’écroulait, la mer,
les fleuves quittaient leur lit, en tremblant les montagnes
s’arrachaient de leurs gonds,
des robots
délirants le suivaient avec de longues
langues de feu, “fermé pour cause de mort”
sur le portail des temples, les portes
des maisons, les cavernes des bois
se fermaient devant lui,
se lézardant, se recroquevillant la création
dans les ténèbres se ruait contre lui.
Lui
vers moi courait, tout à coup
devenu colombe d’air, battement
de lumière se mêlant au battement
affolé de mon coeur.
Combien d’étoiles disparues dans Ie ciel
combien d’amis tombés le long des routes
combien de morts devrons-nous mourir
pour affronter notre mort?
Elles avancent
les routes sans fin
de l’Orient et de l’Occident vers un point
de rencontre inconnu.
Nous avons traversé les déserts
longuement nous y sommes arrêtés.
Gueux, Prophètes, Poètes, rien
n’enseigne plus que le Néant,
notre maître, image d’éternité.
Dans le livre de la vie il n’est pas permis
de sauter à pieds joints les parenthèses:
les resserres ombragées où se cachent
de calmes journées sans histoire, les restes
savoureux des banquets, souvent aussi
de sages provisions pour le futur.
Se faire enfermer
oubliés pour toujours dans ces humbles
refuges de l’existence c’est de l’art
pauvre, mais ça résiste; s’il ne sauve pas,
ami Georges, du moins il console.
Mais pour qui ne se résigne pas à ce sort et poursuit
entre abîmes et ciel
la vérité d’un rêve, descend enfin
dans l’obscure mine où nous attend
l’Énigme et où menace
le piège du mortel grisou, ne reste
que la vacillante lumière de l’esprit
ou le fil d’Ariane qui conduit
au seuil du temple.
(Mais peut-être Dieu
est-il ailleurs, dans le forage le plus profond à côté
de la lampe tremblotante qui explore).
Ici dans la béance où s’ouvre l’entrée,
dans le dernier boyau
une poche d’air résiste encore et au loin
le bruit sourd des marteaux résonne
(il couvre peut-être, dis-tu, le bruit des pas
prudents des secouristes
parmi de brusques affaissements et des éboulis).
Ici l’on peut attendre, insistes-tu,
les secours. Avec confiance, parlant
de courses, de livres, de femmes,
de choses éphémères et légèrès.
Mais moi
qui ne possède
pas l’art de la vaticination, et n’aime pas
les exorcismes bavards (refuse
l’anesthésie, refuse-la, elle tue plus que les bistouris)
à ceux
qui me suivent
dans la sombre impasse je ne dis pas le salut
mais seulement
chercher nous-mêmes une route un sort
différent et le risque
d’étre pour toujours égarés.
Entrons, sans nous soucier des adieux,
la lampe incertaine éclaire
le fond visqueux, projette
des ombres grotesques sur les parois suintantes, en
hurlant
se détachent du fond des muridés qui ensuite nous
accompagnent,
guides diligents et peu fiables. Toujours
nous descendons en enfonçant,
les pieds dans l’eau boueuse, plus loin
I’obscène caresse lèche
nos genoux frissonnants.
L’air
devient irrespirable, la puanteur monte
avec l’eau, annonçant l’horrible
vision au tournant du boyau: un cortège
flottant de cadavres qui défilent
gonflés d’eau, ridicules radeaux emportant
leurs joyeuses troupes de rongeurs.
Puis
de la main tremblante tombe dans l’eau
1a précieuse lampe, tout espoir
est-il perdu pour nous ?
C’est quand
au sein d’épaisses ténèbres nous surprend
une lumière imprévue, qui teinte l’eau, la strie,
vacille et embrase les parois. Un seul cri
et en pleurant nous nous élançons
vers le flot de vie, vers la fin
si ardemment désirée du tunnel.
Hélas, une grille de fer le ferme, en vain
contre elle se rue la force qui nous reste.
Nous tendons
les mains au-delà des barreaux où une rose
exhale son odorante fragilité
votive offerte
à l’éclatante éternité du ciel; sur la terre le soleil
naissant et des étoiles inconnues répandent
une lumière que le regard ne peut soutenir,
de rubis, d’améthystes et de saphirs.
Suspendu dans l’air le trille aigu
des oiseaux répond au chant grave
des fleuves qui descendent vers l’embouchure,
de grands vers jamais écrits sont accompagnés
d’une musique ancienne et nouvelle.
“Vous êtes arrivés” crie,
pendant que nous secouons furieusement la grille,
une voix
dont je ne sais si elle est moqueuse ou amie.