Il viaggio stellare


Dans la nature et dans l’art
je prefère, en supposant l’égalité
de mérite, les choses grandes à
toutes les autres. Je crois que la
dimension n’est pas une considération
sans importance aux jeux de la beauté
(Charles Beaudelaire)

I. La nuvola
Allora sulla linea
fiammeggiante dell’orizzonte una forma
apparve ai miei occhi non vista dagli altri
caduti in un sonno profondo
s’ingrandiva avanzando veloce
in sembiante di nuvola estiva scendeva
azzurrognola e fitta a insinuarsi
fin dentro la bocca oscura del tunnel.
Dinanzi a me allargarsi le sbarre vidi
e agile un’ombra varcava la soglia
ben vigilata dal ferreo cancello
come un campo magnetico la nube
m’attirava, mi portava con sé.
Salivamo, e al nostro passaggio
si spegnevano suoni e rumori, i venti
docilmente ripiegavano l’ali
un silenzio inaudito
ricopriva ogni cosa.
Io
pensando al silenzio di Dio
gridavo atterrito versi sconnessi
e parole prive di senso
che ricadevano vuote ed inerti
nello spazio infinito che m’avvolgeva.
Soltanto più tardi m’accorsi
di non essere solo, che dentro la nube una mano
mi conduceva con quieta fermezza
per sconosciuti percorsi, lontano
dal verdeazzurro pianeta.
Sforato avevamo
il grande velo dell’atmosfera
e splendidi ci venivano incontro
dal concavo cielo
stormi infiniti di stelle
bianche e azzurre, raccolte
in multiformi costellazioni.
L’essere che mi guidava
l’intravedevo appena, aveva
ali iridescenti di farfalla e corpo
flessuoso di fanciulla
nel volto misterioso ricordava
le polene delle antiche navi. Ne spiavo
i movimenti rapidi e sicuri
al timone della mia vita, l’ondeggiare
armonioso nel vuoto. Quando volse
graziosamente il capo il suo sorriso
offuscava le stelle.
Un gesto della mano
non so se di saluto ed una pace
discese nel mio cuore sovrumana
s’allargò come circoli nell’acqua
tersa d’un fiume
sotto le arcate alte della mente.
Ormai troppo terrene le domande
d’ieri e di sempre:
«Chi muove il mondo, quale
l’origine nostra, ove la meta». Mi sentivo
accettato, una molecola
felice in sintonia con l’universo.

II. Il viaggio continua
Il viaggio continuava, ardito.
Navigavamo
per arcipelaghi di stelle, risucchiati
nello spazio e nel tempo dentro i giochi
alterni e opposti delle quattro forze
che ci governano, eppure
sembrava che seguissimo una rotta
ben calcolata, forse
un’orbita celeste. Ovunque fuochi
intorno a noi guizzavano a festa
occhieggiavano pungenti
piccole, neonate stelle.
A volte m’accadeva d’assopirmi. M’accoglievano
laghi d’ombra e d’azzurro che si aprivano
l’uno sotto l’altro come a Plitvize
congiunti da cascate
spumeggianti di luce. Era
uno sprofondare senza angoscia, un abbandono
tra care braccia, nulla
del disperato andare dentro al tunnel.
Inseguivo un sogno
ricorrente e folle: essere assunto
tra gli antichi eroi in una
fulgida costellazione, eternamente
ruotare insieme alle galassie.

III. Morte di una stella
Fu proprio ad un risveglio che compresi
come la guida mia compiutamente
penetrasse sogni e pensieri. «Eterno»
mormorò dal guscio d’ombra
«parola grande
inventata da voi a esorcizzare
i vessilli stormenti della morte.
Ora vedrai l’inganno della mente e come tutto
anche quassù tra noi scolora e muore».
Aveva appena proferito le parole
quando fulgido più di cento soli
un astro apparve
di color rosso vivo, ad ogni istante
cresceva il suo splendore
insopportabile alla vista.
Improvvisa
un’ala immensa solcò lo spazio sconfinato, un vento
oscuro trascinava dai millenni
indecifrabili segnali. Affievolirsi
a poco a poco spegnersi la luce vidi
della stella clarissima, contrarsi,
accartocciarsi il grande disco, nero
con antenne invisibili un abisso
orrenda mantide succhiava
lentamente divorava la stella;
un crepitio, un sibilo affannoso
ne accompagnava l’agonia.
Io pregavo
perché lo strazio interminabile finisse, invocavo
tremando la misericordia del morire.
E fu infine silenzio, una sottile
nuvola ad arco sola traccia rimasta.

IV. Formazione dei sistemi planetari
Scintillavano
nell’improvvisa tenebra le vesti
e le bianche ali distese
e osavo finalmente le parole
che salivano con impeto alle labbra
sin dall’inizio del viaggio celeste:
«O mia guida gentile, fa’ ch’io sappia
chi ti ha mandato a me e a quale impresa,
mentre languivo nel buio cunicolo».
«Il desiderio tuo di conoscenza» rispose
«gridava così forte ch’io lo intesi
da un lontano pianeta e a te volai
seguendo il soccorrevole mio istinto
per aiutarti a ricercare il vero
al di là delle sbarre
di quel cancello da cui fosti vinto.
Vedrai nascere e crescere le stelle
visiterai pianeti sconosciuti
e gente nuova e ti verranno incontro
l’ombre viventi e quelle
dolenti dei defunti».
Giungemmo dunque presso nubi estese
di gas e polveri e conobbi
la culla immensa ove posa la materia
che altra materia roteando veloce
attira a sé con forza di magnete
a formare le stelle.
Ogni atomo irradia la sua luce
libera nella direzione che gli pare
ma insieme fanno come per incanto
la gran luce stellare.
Così avviene nei secoli ai poeti
che ognuno muove per diversa via
e poi formano uniti il grande sogno
della poesia.
Ed ecco un disco,
cento dischi di fuoco e da ciascuno
si staccavano due bracci spirali
per avvolgersi come anelli attorno al centro,
embrioni di sistemi planetari.

V. Il pianeta dei nani e dei giganti
Grande fu l’emozione nell’udire
un suono noto e fra tutti il più caro,
respiro dei miei versi, e chi l’ascolta
ode l’eterno e ogni musica impara.
Da quel vento rapiti scendevamo
lungo un raggio a una macchia verde scuro
che al nostro avvicinarsi spalancava
i rami in fiore in abbraccio amicale.
Rivedevo in flash-back la casta unione
della Terra e del Cielo all’orizzonte
tinto appena d’un rosa verginale
e correre festosi al loro incontro
i vessilli bianco-azzurri del mare.
E ancora i biondi campi, i monti
coronati di nuvole, i nevai
lampeggianti nel sole, il riso
delle fanciulle innamorate, i volti
dei morti che affioravano dall’ombra
tenacemente aggrappati ai ricordi.
Ma la solerte scorta: «Ciò che vedi
non è la Terra, ma una sua gemella
che si nasconde ai vostri telescopi;
ruota veloce intorno ad una stella
sconosciuta, di galassia remota.
Stella piccola e quindi più longeva
del vostro Sole»
spiegò con tono un poco dottorale
«perché più lentamente
consumerà l’idrogeno assegnatole
che delle stelle è elemento vitale.
Così si spegnerà per consunzione
sazia d’anni, di morte naturale».
Davanti a noi era un’ampia radura
erbosa e profumata
e fu dolce posare il piede al suolo,
compatto e sodo,
dopo il viscido tunnel e il lungo volo.
Ora il cielo mulinando nel vento
di continuo cambiava colore;
una pallida luce filtrava
quasi riflessa da specchio oscurato
sembrava ch’esitasse a disvelare
ciò che dall’alto andava osservando.
Ed ecco un trepestio
destò improvviso il quieto paesaggio,
verso di me correva senz’affanno
(la compagna di viaggio era scomparsa)
un bipede a parvenza d’uomo nano
che teneva un gigante al guinzaglio
fermato in alto da un grosso collare.
Per nulla intimorito salutava
portando allegro le mani alle orecchie
il suo sguardo sorrideva cordiale.
Tentammo varie lingue, poi d’un tratto
prese a parlare in un buon italiano
cortesemente s’informò del viaggio
prendendomi familiare sotto braccio.
Intanto il buon gigante mugolando
teneva rispettoso gli occhi bassi
come il lungo guinzaglio s’allentava
agilmente correva dietro i sassi
che il padrone lanciava lungo il prato.
Notai che le fattezze erano d’uomo
come nel nano così nel gigante
ma il primo aveva testa possente, l’altro
un piccolo cranio e latrava.
Come vide dipinto sul mio volto
lo stupore non osato a parole
(intorno a noi una folla in silenzio
seguiva attenta i nostri gesti, ometti
prestanti trascinavano omoni) l’ospite
rise di gusto e a mo’ d’assioma:
«Per vincere nel mercato planetario
diventa giusto quel ch’è necessario.
E per produrre e lavorare sodo
macchina non v’è o robot che può eguagliare
una struttura gigantesca d’uomo.
Basta poco: aggiungere o levare
un gene e ritoccare il cromosoma.
Gli arrivo al petto? M’obbedisce contento
questo idiota perfetto.
Come noti, mi divertono le rime
con le quali si trastullano i poeti
noi li teniamo garruli in corsia
o in gabbie ove si beccano a vicenda.
Quel che dicono non v’è chi l’intenda.
Ascolta: notte e giorno
bocca a bocca ho respirato con l’insetto
sono l’uomo che balbetta al tuo cospetto
un’escrescenza
ma di me non potete fare senza.
Sono versi d’un poeta minimale
ad una mosca non farebbe male.
Ma se alcuno di questi esce dal coro
e tenta presuntuoso qualche volo»
mi guardò con un lampo d’ironia
«gli tarpiamo le ali e resta solo
a meditare sulla sua follia.
Tornando a cose serie, ti sorprendi
perché teniamo gli uomini al guinzaglio.
Perdonami se cito il vostro sommo
filosofo che insegna ed argomenta:
uomini sono nati a comandare
altri a servire; ed è giusta sentenza».
Qui prevenne indulgente la domanda
che si formava sulle labbra e disse:
«Non siamo noi a spiarvi, ma un pianeta
a metà strada che capta e c’informa.
Conosciamo così le vostre lingue
ed ogni evento della vostra storia.
Iniqua sorte» continuò «accomuna
noi a voi, il tormento del pensiero
e correre consapevoli alla morte,
la cara vita chiusa sotto un masso.
Fortunati coloro che non sanno
ai quali è gioia rincorrere un sasso!»
A un tratto vidi accendersi una luce
azzurra sulla fronte d’un gigante.
«Segnala che ha commesso un’infrazione
lieve; l’annota sul taccuino
il nano suo garante.
La luce rossa indica un delitto
che vuole un’esemplare punizione:
si va da un buon colpo di frusta
fino alla morte per impiccagione.
Esiste una casistica precisa
come il libro per voi dei confessori,
scritto» sfoggiò «da Alfonso de’ Liguori».
Poi, compiaciuto, continuò quel nano:
«La pena è certa ed i misfatti rari;
celebriamo i processi per computers
senza lenti e costosi tribunali.
Le ricchezze da noi sono di tutti
(di quelli, intendo, che le sanno usare)
unificati i sessi, ora la prole
nasce in provetta nei laboratori
(si elimina così quella imperfetta),
gli ospedali» ghignò beffardo
«qui non sono una tappa ai funerali.
E poiché non amiamo l’eleganza
e meno ancora lettere e ozi vari
concentriamo gli studi e i capitali
nelle imprese scientifiche e spaziali.
Del resto, se m’affisso bene al vero,
imboccate anche voi questo sentiero».
Di colpo si fece serio e misterioso.
«Ora ti mostro
il passaggio nascosto
che scavammo per anni nella roccia
e ci riporta a un passato lontano
che possiamo disfare a piacer nostro.
Qui dal varco
d’uno sbrecciato muro
ogni giorno spiamo
gli eventi turbinosi del futuro».
Con spavento vidi gli occhi di quel nano
stringersi a un tratto come feritoie
e tingersi d’un sangue non più umano.
M’afferrò per la mano a trascinarmi
in quel suo nero ed empio sortilegio
dove dinanzi alla smarrita mente
il passato e il futuro si confondono
se più non li divide la parete
mobile e familiare del presente.
E vidi cose che Giovanni non scrisse
(ed io pure non oso rivelare)
da fare impallidir l’Apocalisse.
Ma ritornò il méntore fidato
e mi trovai sulla provvida nube
il cuore in gola e l’animo turbato.

VI. Davanti a un buco nero
Dall’alto contemplavo il paesaggio
che lontanando si rimpiccioliva
fin che rimase solo un promontorio
che affiorava dal nulla e poi spariva.
Il nostro moto era lento, ci fasciava
un buio cupo, attonito e sospeso
come d’eclisse di sole totale;
io gridavo nel vuoto lo spavento
d’un piccolo uomo primordiale.
Poi la figura trepida ed amica
si chinò su di me e fu conforto
quella presenza conosciuta e viva
nell’universo morto.
La voce nota disse: «Trascorriamo
davanti a un buco nero
che tutto ingoia quanto gli s’appressa,
tranne la fantasia ed il pensiero.
Da quest’orrido buco in cui s’estingue
la stella già splendente e si contrae,
nulla evade neppure la luce
per quella gravità che la respinge
dentro la buia densità mortale.
Per ciò la stella è nascosta al tuo sguardo
con quanto il suo orizzonte in sé racchiude.
Se noi sfuggiamo alla cattura è solo
per una forza eguale ed opposta
che ci scampa dal fascino perverso
tenendo noi alla distanza giusta.
Un giorno sarà dato d’accostarci
a quel mostro con nuove conoscenze
e attraversare l’imbuto funesto:
esploratori intrepidi di mondi
sconosciuti, forse
d’un tempo diverso».

VII. Il rantolo
Il mio pensiero turbato era volto
a quel mistero che viepiù c’intrica
quanto più avanziamo nel suo folto,
e risuonò tra le navate immense
un suono spaventoso mai udito
che sempre rimarrà nella mia mente.
No, non era musica o voce, il cosmo
ansimava come ansima un vecchio
nel suo letto di morte o quando il vento
s’attorce e s’avventa
contro gli alberi e artiglia
per la gola le montagne gementi.
Seguivano quel rantolo spietato
illimiti silenzi
di neve che discende
soffice e mite e nasconde
le stigmate ghiacciate della morte
sotto il manto innocente.
Ed ecco il cupo rantolo riprende
echeggiando si spande nello spazio
ora è un grido tremendo come in lui
gridasse disperato ogni morente.
«Qualche volta il vecchio cosmo si lamenta»
volle rassicurarmi la mia guida
«per qualche sconosciuta sua vicenda.
Navighiamo entro il vuoto smisurato
che separa l’una e l’altra galassia
ciascuna con miriadi di stelle
e ruotanti pianeti,
punti sperduti dentro immensi veli
di gas e polvere vaganti
nella cangiante varietà dei cieli.
Così muove e s’evolve l’universo
senza scopo apparente
vascello-fantasma in cui s’accalcano
passeggeri atterriti che si chiedono
dove vanno;
e nessuno sa niente».

VIII. Conversazione con lo spirito guida
Capivo d’essere vivo
per il fitto dolore alle giunture
ed il consueto bruciore alla gola.
«Sembra che i morti non soffrano» dissi
«sebbene non si conoscano limiti
al dolore degli uomini».
«Ti piace mutare il metro e lo stile»
m’interruppe a sorpresa l’amica sagace,
leggendo il mio diario interiore
che mi fluiva in forma di versi.
«Se mai tornerai sulla Terra
non sapranno più dire chi sei
o ti riconosceranno soltanto
dalle cicatrici che porti. Per questo
contro di te si scatenerà la canea
spietata dei critici in voga,
adoratori di falsi linguaggi».
Rise. Eravamo seduti
sulla spiaggia di chi sa quale atollo
due vecchi amici che si raccontano
le vicende di tutta una vita.
Mi disse che era vissuta
in un remoto pianeta distrutto
da un meteorite gigante
ed era sfuggita alla sorte comune
perché in missione spaziale
verso lontane, inesplorate lune.
Mi domandò come gli uomini
nascono e muoiono e come
e perché credono nell’Oltretomba.
Mi spiegò che da loro la vita
s’innesta entro corpi maturi
che mutano senza invecchiare.
Soggiunse di sé che ormai sola,
strappata alle proprie radici,
correva libera le rotte stellari
dall’uno all’altro pianeta sopra
improvvisati veicoli spaziali.
Le chiesi che senso, che scopo
quel suo peregrinare tra gli astri.
«Vincere la noia» disse «che nasce
da ciò che vediamo e non cambia,
cogliere la diversità viva, magmatica
dentro la raggelata perfezione
della formula matematica».
Poi, con lirismo inatteso, soggiunse:
«Godi la bellezza
che giorno a giorno ti vado mostrando,
sullo scosceso ciglio della vita
cogli il fragile fiore dell’istante».
Sorrise, ed io pensai: «Chi vieta
di dire leggermente cose gravi
e non è questo il segreto dell’arte?»
A bordo della magica nuvola
guardavo il vorticare delle stelle
ed io in mezzo a loro al centro
del mobile universo
ragno sospeso, fermo
a tessere nel cielo
una splendente, smisurata tela.
«Ora confuto» disse
l’esperta volatrice
«codesta nuova fallace impressione;
così, camminando, il filosofo
mostrò al sofista
che il moto non è illusione. Presto
raggiungeremo pianeti distanti
anni-luce e diversi,
facendo vela per altre galassie,
forse per altri universi».

IX. Il pianeta degli ibernati
D’improvviso mi sembrò che scendessimo
planando dolcemente
poco dopo i miei piedi calpestavano
un pavimento solido e compatto
che si stendeva a perdita d’occhio
senza mostrare alcunché di vivente.
Dal cielo scendeva una luce
livida, oscura,
di temporale imminente o di notte
che un lampo attraversa e improvvisa
bussa alla tua porta la sventura.
Io vidi un mare
fermo di candidi marmi; a ogni metro,
separate da un cancello di ferro,
erano fioche trasparenze di vetro:
da cui s’intravedevano
avvolti in un lenzuolo e imbalsamati
corpi simili ai nostri, irrigiditi,
gli occhi persi nel vuoto, spalancati.
«Tutto è immoto, impietrito»
mi chiarì la mia luce «come dopo
un’esplosione atomica, in attesa
che tra secoli o forse tra millenni
qualcuno d’improvviso li ridesti
da quell’ibernazione e da quel sonno
che rifuggendo da vita e da morte
vollero procurarsi da se stessi».
A lungo rimanemmo assorti
senza coraggio di guardare altrove.
Pensavo ai camposanti nostri, dove
sotterra o entro nicchie nei muri
attende fiducioso ciò che resta
dei resurrecturi.
Quando partimmo
una coltre di cenere nera
avvolgeva il funereo pianeta
rivedevo biancheggiare nell’ombra
quei volti tesi di bistro e di cera.

X. I robot
Ormai perduti senso e direzione,
in un baleno ci trovammo al centro
d’altro ignoto pianeta che impetuoso
con gran frastuono
ruotava su se stesso
come una giostra al luna park.
Al centro della giostra si muovevano
fantocci che agitavano la testa
ritmicamente facendo segnali
accompagnati da voci metalliche
e urla e risa beffarde e volgari.
«Ti canzonano» mi spiegò l’amica
«perché nei tratti rassomigli a quelli
che non volendo gli diedero vita;
imprevidenti e superbi
rimasero senz’acqua e senz’aria
e così adesso ingrassano i vermi».
Mentre parlava ci veniva incontro
sparpagliata una schiera di robot,
bipedi e quattrozampe, che gridavano:
«Son morti, mucchi d’ossa nelle fosse
e noi che fummo schiavi siamo vivi.
Volevano sfruttarci e a loro libito
spietatamente staccare la spina
per questo siamo qui ad esultare
per la scomparsa improvvisa e insperata
di questa specie arrogante e assassina.
Per vile tornaconto c’insegnarono
a riparare da noi stessi i guasti
a riprodurci in massa ed in tal modo
al loro posto noi siamo rimasti.
Ma non ripeteremo i gravi errori
per cui folli seguirono la sorte
dei dinosauri loro genitori.
Tu la lezione imparala a memoria»
dissero a me, ridendo minacciosi
«e quando un giorno tornerai tra gli uomini
racconta questa storia».
«Di tal genìa s’è visto abbastanza»
– così la saggia scorta – e ritornammo
al veicolo alato e alla speranza.

XI. Tra le ombre viventi
«Ora» sussurrò standomi accanto
sorridendo come a farmi coraggio
«visiteremo il regno delle ombre
che mai ebbero un corpo e non conoscono
l’orrore senza fine delle tombe».
Eravamo nel cuore d’una notte
fuori del tempo, colma di mistero
davanti a noi s’ergeva un palazzo
immenso con mille finestre
da ognuna s’affacciavano ombre
che ci guardavano, d’improvviso deste.
Sotto, listato di buio,
tremava un lago soffuso di luce
vi danzavano seguendo una musica
lievi immagini armoniose e sicure.
Ci accostammo solleciti alla riva
forme eteree ci venivano incontro
salutavano agitando la cima.
«Questo popolo d’ombre che tu visiti»
volle avvertirmi la fidata guida
«ha il linguaggio dell’erbe e dei fiori;
quando un’ombra va muovendo lo stelo
compiutamente esprime il suo pensiero.
Però porti con te troppo peccato
e questo manto di tenebra cela
alla tua vista quel chiaro dettato.
Esse d’altronde ignorano il linguaggio
di chi pronuncia con la lingua e il labbro;
per cui vi sarò interprete fedele
se la vostra amicizia m’incoraggia».
Ero confuso e con me le parole
che alle mie labbra giungevano tarde:
«Vengo da un pianeta chiamato Terra
mi porta il dubbio per cui mi tormento,
vago nel cosmo cercando qualcosa
che non conosco
o più non rammento».
L’ombre ascoltavano. «Siamo parvenze»
sussurrarono in coro
«come voi lo siete
non però rivestite dell’involucro
d’ossa e di carne che la morte miete.
Ci partorisce il grembo della notte,
conosciamo senza il tramite dei sensi
non abbiamo timori, né ci attraggono
i gorghi d’impetuosi sentimenti.
Resta fuori dell’umbratile mondo
il fragore delle guerre, l’abominio
di stragi d’innocenti, la vergogna
di popoli affamati accanto ad altri
che li guardano, sazi e indifferenti».
Nell’ascoltare quel giudizio obliquo
ma del quale m’era chiaro il bersaglio
mi risentii, tentando una difesa:
«Se il nostro corpo si corrompe e muore
se ci accompagnano odio e sofferenza
ci confortano ognora arte ed amore
di cui voi non avete conoscenza».
«Il sangue che vi scorre nelle vene»
replicarono quell’ombre impietose
«il guizzare dei muscoli e gl’impulsi
che dall’inguine offuscano la mente
gridano che la vita vi concede
soltanto pochi istanti di piacere
e, partoriti un giorno nel dolore,
voi trasmettete una speranza breve
che al primo soffio di vento si spegne.
Noi siamo libere
intessute di sogno
non schiave d’uno scopo o d’un disegno;
fatte di nulla ed oscuriamo il sole».
La mia compagna traduceva in versi
un canto effuso di stormenti fronde
o forse un alfabeto d’acque vive
che sgorgavano amare dalla fonte.
«Vivere uomo» risposi veemente
«è duro privilegio; essere ombre
la condizione squallida dei morti».
Aspra fu la risposta: «Siete impasto
mal riuscito di protoni e neutroni
peggio del fango di cui parla
pietoso il Libro della creazione».
Intervenne l’interprete sdegnata:
«Questa vostra tenzone ha lo squallore
dei diversi che rifiutano l’altro
perché non hanno intelletto d’amore».
Dileguarono l’ombre ad una ad una
per compattarsi poi in una sola
petali chiusi di un oscuro fiore.

XII. Giordano Bruno
«Tu stimi l’ombre entità inferiori»
disse l’amica riprendendo il volo
«però considera che il Dio creatore,
se pur esiste e tenti immaginarlo,
ha la parvenza d’ombra e nel suo fondo,
nell’infinita cavità nasconde
la realtà e irrealtà d’un sogno».
Eravamo in surplace sospesi in uno
degl’infiniti spazi interstellari
intenti ad osservare un grande sole
che impallidiva all’alterno passaggio
di sconosciuti corpi planetari.
Fantasticavo pensando ai miliardi
di pianeti ruotanti intorno ad astri
d’innumeri galassie,
agl’infiniti mondi e a quanti v’abitano
esseri intelligenti che domandano
perché, levando in alto gli sguardi.
Pensavo a Bruno che salì sul rogo
per non tradire la fede nel vero,
a un Dio che tutto può e muore
per salvar noi d’un pianeta sperduto
nell’infinita vastità del cielo.
«Salvarsi da che, salvarsi come»
domandò sorridendo la compagna
leggendo come sempre il mio pensiero
«ma per salvarsi basta forse crederci
nascondendo la testa nel mistero».

XIII. L’assalto amoroso
Mi chiedevo
chi fosse veramente il timoniere
che di continuo mutava d’aspetto
ora polena, ora donna, ora efebo,
ombra ed ancora alato timoniere.
Dopo le metafisiche domande
che avevano turbato la mia mente,
volgevo in altra parte l’attenzione,
iridata, volubile farfalla
che inseguiva nel volo una visione
di bellezza e di grazia. Mi pareva
ravvisare una malizia, un’arte
di sottile seduzione
nell’amica gentile che mostrava
il leggiadro sembiante in più persone.
Ricordo:
eravamo discesi
presso un bosco d’autunnale splendore
in un pianeta somigliante alla Terra.
Ci scrutava
l’occhio rosso d’un sole.
La mia compagna contemplava assorta
lo spettacolo grande del tramonto
io rimiravo le dolci fattezze
il sorriso ineffabile del volto.
Forse fu amore ad incendiarmi i sensi
o una follia improvvisa
funestamente attraversò la mente.
Sentivo il cuore suonare a distesa
nel mio petto impazziti rintocchi
quando belva che sfrutta la sorpresa
goffamente m’avventai sulla preda.
Vivessi mille anni e mille ancora
mai
potrei dimenticare lo stupore
doloroso di quegli occhi stupendi e
il tremito del suo corpo tra le braccia, prima
che in ombra con un grido si sciogliesse.
Oh conquista dello spirito innocenza
arduo punto d’arrivo, non soltanto
viatico che non dura, alla partenza!
Pensai d’aver segnato il mio destino
d’essere abbandonato a morte certa
in quella plaga, per giusta sentenza.
Lei disse solo: «Riprendiamo il cammino».
Avrei voluto chiedere perdono,
ma le parole facevano ressa
e mi stringevano forte alla gola.
Soffocavo e d’improvviso un sonno
ghiacciato mi pervase e somigliava
a morte repentina che s’approssima.
Ora la nube listata di viola
era una bara ondeggiante nel vuoto
che mi portava a un’oscura dimora.

XIV. Il sogno
Andavo in sogno
per una strada senza sbocco
polverosa, battuta dal vento
che trascinava uomini e foglie,
con me portavo
il mio pentimento.
Volti anonimi e corpi disfatti
si muovevano mostrando una fretta
misteriosa e alquanto sospetta. «Sono»
mi sussurrava qualcuno «industriali
che comprano e rivendono coscienze
viaggiano instancabili e protervi
per le rotte ov’è più fonda la miseria
coprendo affari con beneficenze».
Dietro a loro venivano ben noti
politici, solerti e faccendieri,
portaborse ossequiosi, clienti
e magistrati dai volti severi.
Cautamente parlavano tra loro
di scambi, di prebende e di favori.
Seguivano, scrittori rinomati
e a braccetto critici e poeti che
si lodavano l’un l’altro spudorati.
Sul ciglio, in fila, la povera gente.
Dietro a un banchetto, un superstite prete
cercava di vendere un calice
insieme a reliquie ed immagini
di santi dall’aureola facile.
Camminavo e per l’arida strada
m’accompagnavano a tratti i miei morti
cari che mi volevano aiutare,
ma erano fantasmi nel vento
voci confuse che uscivano
da qualche misterioso cellulare.
Non mancava il solito eremita
che s’incontra nei viaggi immaginari,
maleodorante, con la barba incolta,
grande esperto di cose spirituali.
Volevo interrogarlo lungamente
sulla mia sorte nel viaggio stellare
lui si segnò come mi vide giungere
scendendo a precipizio da una pianta
eletta a domicilio d’ogni affare.
L’inseguivo, ed ecco un trepestio
rapido e forte con batter di mani
che montava mugghiante e minaccioso
e travolgente come uno tsunami.
Era la folla impazzita di quelli
stessi incontrati per strada; avevano
cubetti di porfido e pietre
appuntite e gridavano:
«Lapidiamo l’infame ha tentato
di violentare il suo spirito-guida,
non v’è perdono per questo peccato!»
A un tratto, uscito da una folta macchia
di cespugli e di tamerici
apparve un uomo, le vesti stracciate
e nel costato lunghe cicatrici;
mi venne incontro, mi guardò, sorrise
(la folla si disperse soggiogata)
disse deciso: «Seguimi fratello
e la tua colpa sarà perdonata».

XV. Il perdono
Mi destai che tendevo le braccia
vanamente a quell’uomo pietoso;
mi chiamava non potevo raggiungerlo
disperato ne perdevo le tracce.
La magica nube sfrecciava
così veloce che incrociando una nave
spaziale, non ci fu tempo
di scambiarci un segnale.
Notai che la guida gentile
era al timone vigile e serena
abbandonate le sembianze d’ombra
aveva aspetto di donna e polena.
Pensai che il miglior modo d’un poeta
per dire grazie all’essere amato
fosse di recitare alcuni versi
che toccassero il cuore e mostrassero
in note semplici l’animo grato.
«Io venni per vedere l’universo»
cominciai «ma lo sguardo
non stacco dal bel viso
e t’offro un verso logoro ed indegno
mentre tu mostri a me il paradiso.
Presto mi lascerai per altri voli,
rimarrò solo, agli uomini inviso,
infliggimi ogni pena, ma non puoi
cancellare il ricordo del tuo riso».
«Così siamo tornati ai madrigali»
disse l’amica lieta e divertita
«abbi per certo che t’ho perdonato
e ancora sarò guida alla tua vita».

XVI. I morti
Poi con accento che si fece grave:
«Tra poco calcherai l’amata Terra
ma prima è necessario che tu osservi
la faccia oscura del pianeta, il regno
immenso e desolato che governa
il Potere divino o il Nulla eterno».
Così dicendo, porse un cannocchiale
di smisurato diametro, giammai
sulla Terra avevo visto l’eguale.
Seppur di lega sottile e leggera,
con fatica sollevai lo strumento
puntandolo come l’amica mi diceva.
Ed ecco un antro enorme e dentro questo
era un confuso agitarsi frenetico
quale alveare d’un tratto ridesto.
Ombre in volo ci venivano incontro
stormo immenso d’uccelli di passo
avanzando oscuravano il cielo che
capovolto si mostrava da basso.
«Un congegno» avvertì l’amica
«ci permette di comunicare
e a noi, per misterioso privilegio,
d’esser di qua e di là del telescopio
tra i morti che ti vogliono incontrare.
Non ti stupire se saranno pochi
– anonimi o famosi –
quei che potranno o vorranno parlare;
e le ragioni, se bene m’intendi,
da oscure e dubbie ti saranno chiare.
Non parleranno gli uomini che allora
che il sole generoso li scaldava
nulla avevano a dire se pure
ventriloqui vani cianciavano.
Tra questi
presentatori garruli e servili
e politici tronfi ed indigesti
che ben conoscono l’arte sottile
di parlare senza farsi capire.
Non diversi i teologi che insegnano
ciò che non sanno facendo la ruota
e buona parte dei predicatori
che dicono nel vuoto cose vuote.
Tutti costoro hanno perso la parola
ch’han sperperato quand’erano in vita.
Ad essi si accomuna il largo stuolo
dei vili che tradirono l’amore
con reti di lusinghe e di menzogne,
i mercanti che vissero d’inganni e
coi soldi barattarono l’onore.
Non parlano neppure i sognatori
perché non si dissolva il loro sogno
e quanti in vita hanno sofferto troppo
e temono il ridestarsi del dolore.
Esitano a parlare anche i violenti
perché s’azzannerebbero tra loro
e l’un dell’altro farebbero scempio,
il filosofo che sa di non sapere,
gli educatori che all’alte parole
con amore anteposero l’esempio.
Altri però verranno a conversare
perché il silenzio è compagno alla noia
che per i morti è il peggiore dei mali».

XVII. L’incontro
Mentre ascoltavo, l’ombre vorticavano
in caroselli senza sosta ed una,
insofferente, si staccò dall’altre;
venne e nessuna osò passarle avanti.
Come la vidi un tremito
percorse le mie membra, il cuore in petto
mi batté forte per l’antico amore
e l’emozione d’essere al cospetto
d’uomo che più d’ogni altro il mondo onora.
Sentivo la mia voce uscire a stento
la lingua ch’esitante si muoveva
articolando confuse parole:
«O caro padre mio, che visitasti
Inferi e Cielo e illumini il cammino
di chi tardo e confuso viene dietro
con te è giusto umilmente ascoltare
e rispondere a quello che il tuo estro
voglia benignamente domandare.
Ma tu consenti che questo ti chieda
sì ch’io sgombri dall’ansia la mia mente:
che sorte attese i morti che onorasti
con il tuo canto e li facesti grandi?»
Rispose triste: «Giacciono ammucchiati
nel grande cimitero della Terra;
pacificati
fraternizzano tra i vermi.
Però fin quando il mondo li ricorda
vagano quaggiù le loro ombre,
si muovono nel nulla e regge i fili
di quest’altra esistenza la memoria.
Poi la Bontà infinita ha sì gran braccia
che tutti ci cancella e più non resta
della nostra esistenza alcuna traccia.
Ma non eluderò quella domanda
che la tua mente al dubbio sottomette
e già vedo salire alle tue labbra:
esiste un Dio che l’universo regge?
Se intendi rettamente la visione
che muove la Commedia e la suggella
Dio è luce in cui l’uomo si riflette.
Ma se l’arida scienza l’apparenta
a protoni, neutroni ed elettroni
ogni fede ha perduto sua semenza».
La voce era serena, ma uno spasmo
che attraversava il volto rivelava
la ferita dell’anima e il dolore.
«Tutto è vanità» proseguì «ma gli uomini
non comprendono e si fanno la guerra
divisi sempre in vittime e oppressori:
fin che la tomba gli uni e gli altri serra.
Ognora si ripete nella Storia
quello che lungo i secoli è successo;
Budda è venuto e Cristo e Maometto
giù sulla Terra per cambiare il mondo
il mondo muta ed è sempre lo stesso.
Afflato di giustizia e di pietà,
nell’Oltretomba ho collocato gli uomini
variamente secondo che meritano
quasi supplendo la Divinità».
Poi col sorriso mesto delle ombre:
«Tu saresti» mi disse «un altro Guido
e forse vorresti essermi seguace
ma più nessuno tra i versi fa il nido
se pur fornito d’ingegno vivace.
Parola e realtà vanno disgiunte
ormai la prima si coltiva in vitro
fugge il lettore cercando altro lido».
Così parlò e poi si ritrasse.
Io resi il cannocchiale alla mia guida
perché il ricordo mai si cancellasse.

XVIII. Altri incontri
Ma dolcemente il mio buon consigliere:
«Non puoi negarti all’ombre che s’affollano
per ascoltare ed essere ascoltate»
e con gesto risoluto mi porse
ancora il cannocchiale e vidi ancora
l’inquieta gente che veniva incontro
alla mia ansia, a rapide folate.
Udivo un coro greco, tutt’intorno
cantavano e piangevano la sorte
dei vinti, degli oppressi, degli esclusi
durante e dopo il fugace soggiorno:
«Giustizia non esiste se i destini
di Caino e di Abele sono eguali,
se gli ebrei qui si mischiano derisi
ai loro miserabili aguzzini e
va tuttora aggirandosi implacato
il ricordo di noi, larve vaganti
dietro il filo spinato.
Ma più abbiamo schifo di coloro
che potendo non vennero in aiuto;
sopra il letame giacciono appiattiti
non per castigo, ma perché piace a loro
temendo rischi a rimanere ritti».
Volevo confortare quegli afflitti
quand’altra schiera apparve a me davanti
ruggendo come giovani leoni:
«Libertà inseguimmo in ogni luogo
tra i monti e le torture e le prigioni
soltanto combattendo la trovammo
ma lentamente si spegne quel fuoco.
Guarda morire i monaci birmani,
in fila tutti contro l’oppressione;
li aiuta il mondo con appelli vani».
Mentre giuravo il mio impegno a quei prodi
vidi muoversi un’onda di stendardi
d’antica e venerata religione;
e dietro a loro canuti vegliardi,
il passo stanco il volto assonnato,
si muovevano come in processione.
«A questi che somigliano a sonnambuli»
suggerì la mia guida «puoi proporre
tutti quanti i quesiti che tu credi
perché te lo consente il loro passo
di gente tarda che trascina i piedi».
«Voi dei stendardi» dissi a voce alta
«che andate come esercito sconfitto
e avete aspetto stanco ed avvilito
vorrei che mi diceste se il sentiero
che porta all’inesauribile Sorgente
è aperto ancora o per sempre ostruito».
Più che risposte giungeva un brusio
di voci a un tempo discordi e uniformi;
solo allora compresi la malizia
delle parole del mentore mio.
Ed ecco un’ombra mi si fece incontro
che veniva da opposta direzione,
aveva piaghe sul dorso delle mani
un umile sorriso
come un’aureola illuminava il volto.
«Sono Francesco» disse «testimone
della fede che dona e non divide
vissi in Terra l’amore che non chiede
per me non prego altro paradiso.
Quando fui posto nudo sulla Terra
fasciato solo da un raggio di luce
io non chiesi se Dio esistesse,
lo sentii fiamma che nel cuore brucia.
E la Chiesa alla quale fui fedele
può vivere nei secoli se è fonte
d’amore e non di prediche severe.
Se questo non comprende il suo Pastore
e guida con la mente e non col cuore
nasceranno discordie ed il suo gregge
presto si perderà per ogni dove».
Disse ed era già in altro luogo
e mi pareva che un lupo e un agnello
camminassero l’uno accanto all’altro
docili, in obbedienza al Poverello.
«Ora vedrai la carità in persona»
mi sussurrò la compagna di viaggio.
Una donna da nulla muoveva
tra cenciosi dai volti corrosi
ne curava le piaghe e col lume
di speranza gli dava coraggio.
Se n’andò senza dire parola
offrendo a Dio le sofferenze sue e
di tutti gli afflitti della Terra;
era con loro e appariva sola.
Comparve allora un missionario laico
che offrendo la giovane vita
molte vite salvò nel Ruanda.
Guardando altre ombre diceva:
«Non feci per loro abbastanza».
Poi vidi alcuni
che restavano distanti,
timorosi guardandosi alle spalle;
esitavano a venirci davanti.
«Sono coloro» mi spiegò la guida
«che anticipando la comune sorte
disperando scambiarono la vita,
peplo avvelenato, con la morte».
Tra questi scorsi Welby liberato
infine da una vana sofferenza
lungamente inflittagli nel nome
della sacralità dell’esistenza.
Welby parlò per tutti: «Vigiliamo
che anche qui non ci seguano molesti
quelli che sulla Terra hanno preteso
di prolungarci un atroce patire.
Registi arditi dell’altrui morire
fin sulla soglia seguono i morenti
per controllarne gli ultimi respiri».

XIX. L’orda
Ed ecco un’orda d’ombre ed a precederla
era per l’aria orribile fetore
avanzava abbattendo ogni ostacolo
come tempesta con grande clamore.
«Questi torbidi flutti s’accavallano
l’uno sull’altro scagliandosi contro
l’argine debole eretto dai buoni»
mi disse piano l’amica celeste
«quelli che vedi alti sopra gli altri,
d’uomini ne sterminarono milioni.
Però c’è un’ombra di persona viva
che i malvagi invocarono a gran voce
perché vogliono eleggerla a campione:
li rappresenta tutti, vivi e morti,
forte delle sue imprese e del suo nome.
Come vedi, ci viene ad incontrare
scortato da uno stuolo di bricconi».
«Anche tu porti odio al mio Paese?»
esordì e controllò il lasciapassare
che la guida tremando gli porgeva.
«Sono il re del petrolio, anima nera»
– così van dipingendomi i nemici –
più del petrolio stesso per il quale
misi a fuoco ed a sangue il mondo intero.
Ho combattuto il male con il male
al servizio del popolo sovrano
non vi fu colpa
se ne trassi guadagno.
Ma plaudite anche voi al Presidente
del quale sono socio e confidente».
Così concluse e da tutti ossequiato
s’allontanò senz’aver salutato.

XX. Gl’innocenti
L’aria purificata, vidi in volo
tante piccole ombre rilucenti,
palpitavano come lucciole di notte
che s’accendono e si spengono ad un tempo.
«Sono i bambini» m’indicò una voce
«che muoiono a milioni sulla Terra
per la fame la sete ed altre piaghe
bibliche oltre al flagello della guerra.
Guardano coi grandi occhi l’Occidente,
dove gli uomini vivono sprezzanti
nel superfluo del loro nutrimento
e levando contro i miseri un muro
globalizzando
già dettano le leggi del futuro».
Davanti a noi passavano veloci
gli sciami di quell’ombre che non vissero
abbastanza perché ne udissimo le voci.
Sparirono in silenzio, il loro volo
breve come fu breve sulla Terra
dove solo le madri li ricordano
che invano partorirono con duolo.
«Quando sarai tornato sulla Terra»
disse commosso il mio spirito guida
«fa’ che il compianto e il pungente rimorso
non si vestano di vuote parole
ma siano ali a portare soccorso».

XXI. Gli avi
Poi s’addolcì quello sguardo severo:
«Ora vengono a te persone care
che t’amarono in vita e nulla chiedono
se non la gioia di poterti guardare».
Mentre parlava, due pallide ombre
sorridendo mi venivano incontro
la mano nella mano,
ne ravvisavo il volto, col ricordo
rimodellando il loro aspetto umano.
«Guido!» chiamò l’ombra materna
e fu sì forte
il grido che risuonò in quel silenzio
che si voltarono l’ombre già partite
per far ritorno al regno della Morte.
«Guido» ripeté «sei qui davvero
corpo che ancora palpita e respira
in questa ressa d’ombre
ombra io stessa? E come tanta grazia
dalla bontà divina fu concessa?»
Disse e la voce le tremava in gola
si strinse all’altra ombra e mi guardava
con quell’amore che non ha parola.
Ed ecco l’altra ombra si muoveva
quasi giungendo le mani in preghiera
e con voce commossa: «Ti ricordi
qualche volta di noi quando s’allenta
la morsa della vita che ti serra
e sopra la veranda nostra il cielo
si tinge dei colori della sera?
o quando guardi il mare che si frange
spumeggiando tra scogli e l’inargenta
la luna, nostra mite messaggera?
Tu e questo mi manca e i misteriosi
suoni della città che si ridesta
la vita che tumultua in mezzo al traffico
il viavai dei passanti che si specchiano
nelle vetrine pavesate a festa.
Oh andar per strada lacero e stanco
ma esser vivo tra la folla viva!»
Tacque quasi confuso del suo dire
lui che un po’ vergognava, un po’ gioiva
di quel suo figlio che scriveva versi.
Sorrise e fece il gesto d’abbracciarmi
poi si trattenne, sapendo l’inganno.
Io dissi solo: «Sapete che v’amo».
Altro non volli aggiungere temendo
che nel mio dire leggesse l’affanno
e il dolore d’un vivere insensato.
Passò sul volto rapida la mano
tremante, come in vita nascondeva
ai cari figli l’animo turbato.
Se ne andarono insieme, un’ombra sola
s’allontanava consolata e mesta
a lungo salutava, già ghermita
da quella buia cavità funesta.

XXII. Ammonimenti
Forse a vincere l’angoscia e il rimorso
per un amore così tardi espresso
io mi rivolsi alla guida sincera
chiedendo s’altri potessi incontrare
che si levasse sull’anonima schiera.
Disse: «Se parli d’uomini che in Terra
hanno svettato su tutti per scienza
sii pago di leggerne il pensiero
nell’opere in cui più sale e s’addensa.
Conoscerli di persona sminuisce
l’alta stima che n’accompagna il nome,
troppo minori di quello che scrivono
inducono sovente a compassione.
Così è dei poeti e dei pittori,
invidiosi l’un l’altro dei successi,
pieni di tic, di debiti, meschini,
con un giusto disgusto di se stessi.
Mi limito a parlare dei migliori,
non dei tanti che giunsero a fama
per intrallazzi e scambi di favori.
Neppur ti giova assistere al congresso
qui riunito di papi e cardinali
pretendono chiarire Dio a se stesso
come quando sedevano contenti
in dotte Commissioni episcopali.
Tienti lontano da coloro che
in vita s’atteggiarono impudenti
a moralisti ed a maîtres à penser:
delinquenti richiamati in cattedra
e in video da ignobili lacchè.
Cari ti siano invece i veri santi
che non fanno miracoli annunciati
ma danno amore e asciugano i pianti.
Rischiarano il cammino verso il Vero
portando sulle spalle il peso enorme
e leggero del cielo.
Ma già incontrasti Francesco e Teresa
che dei santi conducono la schiera
e portano fra le braccia la speranza
per cui sbocciano i fiori a primavera.
Quanto ai tuoi versi, t’ha insegnato Dante,
se pur nessuno
può imparar quell’arte.
Però tue dubbie rime sono intrise
di dolore e d’amore e forse è questo
che al lettore avvicina e le redime».
Poi gravemente: «Ora il tempo è trascorso
che fu concesso a così raro incontro».
E in così dire prese il telescopio
dalle mie mani, e sparì la visione,
ma rimanendo fitta nella mente
a confortare l’incredula ragione.

XXIII. La luna
Giunti in vista d’altro corpo celeste,
così parlò l’angelica figura:
«Il disco che a fari spenti s’avvicina
– dove secondo la favola antica
Caino porta la grave fascina –
dal prode Astolfo visitato un giorno
per ritrovare il senno dell’amico,
racchiude e serba in un cratere immenso
il bene sommo delle umane genti
perduto per insania e qui portato
da congiura di nuvole e di venti.
Quando la luna più vicina sia
a noi e rischiarata dalla Terra
mostri dove il cammino è più sicuro
per questo viaggio ci porremo in via».
Ascoltavo e mi chiedevo se il senno
l’avesse perso il mio buon condottiero
tanto quel dire m’appariva strano
ma il vino forte più accende la sete
attesi quindi con ansia il suo cenno.
Fu quando la nuvola ardita
sembrò che abbordasse la luna
per poi sorvolarla e posarsi
dove la roccia sembrava ferita.
Dalla cima del monte guardavamo
giù per l’interminabile camino
lì gorgogliava putendo una lava
lattiginosa, striata di sangue
cercava invano d’aprirsi un cammino.
«Quello che vedi» ripeté la guida
«è il cervello smarrito degli umani,
non di questo o di quello come apparve
al cavaliere Astolfo, ma gran parte
dell’alta dotazione della specie
sperperata inseguendo idoli vani.
Così avvenne in altre epoche funeste,
cui seguì un recupero parziale,
ma gli strumenti ch’offre oggi la scienza
vi condurranno, in tempo che s’approssima,
al recupero o alla perdita totale.
S’affaccia trepidante il nuovo secolo
su questo pozzo grande ove si scarica
ogni giorno il cervello andato a male».
Mentre la mia sibilla profetava,
dentro i pianori di cenere e polvere
su cui s’ergeva la montagna cava
m’apparve un brulicar d’esseri umani
attorno a bancarelle improvvisate,
come si vede ai mercati rionali.
Dinanzi all’incredibile visione
mi volsi alla mia guida che rideva
senza ch’io comprendessi la ragione.
«Sono» mi disse «mercanti e acquirenti
di questa merce davvero speciale,
arrivati da ogni parte d’Europa
con un charter d’una linea spaziale.
La merce giù da voi è rarefatta
questo spinge oltremodo sul mercato
la domanda di senni ancora intatti.
Così vengono qui ov’è abbondanza,
incettano cervelli mai usati
che estraggono esperti scavatori
dal gran mucchio ove il resto è putrefatto.
Parlo del senno dei bimbi non guasto
perché non giunti nell’età scolare
o dei tanti che s’affidano agli altri
per non fare lo sforzo di pensare.
La merce varia ed asseconda i gusti:
molto apprezzato il senno di coloro
che raggiunsero cariche ed onori
nell’agone civile o militare;
non hanno mai usato quella parte
che fa distinguere il bene dal male».
Con terrore cercavo il senno mio
tra i banchi dei poeti laureati.
Non era esposto
e ne fui grato a Dio.

XXIV. Le parche e il tempo
Guardavo intorno, l’essere celeste
seguiva il mio pensiero che muoveva
circospetto dietro l’orme d’Astolfo
accolto dall’apostolo severo
che vide in sogno
precipitare fiammeggiando gli astri
e nascere altra terra e un nuovo cielo.
«Quelle che vai cercando si nascondono»
disse piano la volatrice amica
«perché nessuno le possa vedere,
ma filano senza sosta ed il lavoro
in controluce è più ingrato di ieri.
È vietato persino nominarle
rifugiate di notte in ospedali
con pazienza finiscono la tela
accanto ai disertati capezzali.
C’è sempre il vecchio sì espedito e snello
che per correr parea che fosse nato
ed ora è qui ed ora in altra parte
e tutti ci trascina col suo fiato.
Guardalo con che lena spazza i fiori
che furon sulla Terra i grandi amori
e a mucchi porta via le foglie
che cadono dai rami dei ricordi».
Ascoltavo ed i monti della luna
s’accendevano d’una luce irreale
guardavo l’orizzonte curvo
prono sul nulla
pensavo al mio ritorno, mentre incerta
la Terra innanzi a noi si profilava.
E al chiaro del crepuscolo lunare
che stravolgeva e insieme disvelava
mi parve ravvisare d’improvviso
nella mia dolce guida la figura
fedele che da sempre mi guidava
in mezzo alle tempeste ed agli affanni
lungo i sentieri della poesia;
ed anche vecchio non m’abbandonava.

XXV. Il ritorno
Mia fantasia non ripiegare l’ali
ora che volgo all’ultimo traguardo!
Noi eravamo ancora sulla luna
in quella parte che al pianeta nostro
eternamente rivolge lo sguardo.
Contemplavo la Terra ove nacqui
cui la luna rendeva il chiarore
misterioso che da lei riceveva
contraccambio estenuato d’amore.
Il viaggio sarebbe presto finito
con lo stesso fardello di dolore
tornavo al tunnel da cui ero partito.
L’ultimo tratto che percorsi in cielo
con la mia cara amica fu in silenzio
quasi noi dilatassimo l’addio
dolente, anticipandolo nel tempo.
Anche la velocità diminuiva
per la ridotta gravità lunare
che compiacente a noi lo consentiva.
Entrammo infine in orbita terrestre
sulla scia d’un veicolo spaziale
che si muoveva con manovre destre.
Quando improvviso un vortice furioso
di pioggia e di vento
ghermì, squassò il fragile guscio
lampeggiando e tuonando orribilmente.
Più volte la serica nuvola
come impazzita ruotò su se stessa
poi fiammeggiando solcò il cielo e cadde
a guisa di meteora splendente.
Eravamo tornati all’atmosfera
che cinge con il manto suo la Terra
contro di noi s’avventava una massa
oscura per la notte che incombeva.
Fu l’ovattata coltre della nuvola
che smorzò la violenza dell’impatto,
ora affondavo i piedi dentro al fango,
nel freddo grembo della Terra antica.
Ero dietro al cancello
(o forse in nessun luogo della vita)
«Siete arrivati», gridava una voce,
non so se beffarda od amica.