Dal buio
Ammiro quelli che discendono
sul fondo della loro anima, speleologi
coraggiosi e prudenti,
con torce elettriche e corde
e determinazione metodica visitando
le tenebrose caverne
illuminano
le reliquie degli avi e le molte
ricchezze nascoste. Quando
con eguale circospezione risaliti
alla plaudente chiarità della superficie
agli amici in attesa raccontano
e sorridendo ai fotografi…
Però amo gli altri
che giacciono sul fondo dell’anima
non per volontà ma sospinti
da una loro frana improvvisa
senza torce non scorgono che fantasmi
temono e desiderano di risalire.
E amano la luce quanto
definitivo ne avvertono l’abbandono:
in questi pozzi di dolore si riflette
inconsapevole, una generazione.
Tramonto
Gli scheletri dei palazzi in costruzione
con i cartelli appesi al fianco «Vendonsi
lussuosi 7-10 vani zona
residenziale» si torcono
al fuoco del tramonto, spira
una brezza di calcina. Qui la ferrea
gru che presiede ai nascimenti tesse
tra le nubi di smog assurdi piani regolatori, l’orda
strepitosa delle dentate escavatrici attornia
le case condannate. Guizza il neon fuoco fatuo
accende
un policromo gioco di parole, resti
asserviti di un linguaggio, irrompe
la furia delle macchine, sovrasta
la protesta dei claxon contro il tempo
che sorpassa, fuggono
costellazioni ambigue dentro i fondi
mari dei parabrezza.
Parlo di noi
Perché noi cerchiamo qualcosa
che non sia stato,
o non sia stato a quel modo,
non parlo d’ideali, ne serbiamo
un guardaroba completo
diviso per stagioni,
io parlo della vita
la vita che ripete, oggi, i suoi gesti
uguali, incapace di stupore,
ha sorrisi avvizziti
su una bocca venale,
purifica i genocidi
con un benessere pio.
E neppure la forza di piangere.
Parlo di noi, non so corpo o anima
– abolita, forse, non sostituita,
i corpi hanno parabole brevi
s’alzano appena da terra e vi ritornano in fretta –
non abbiamo più favole
da raccontarci l’un l’altro,
la paura non s’inganna con le formule,
asserragliati nei laboratori
attendiamo un’impossibile salvezza,
neppure le parole sono nostre
abbandonate tra noi
da generazioni sepolte.
Non è il caso di sorridere
se noi cerchiamo qualcosa
che non sia stato,
o non sia stato a quel modo.
Sebbene
Sebbene, fatto ad immagine di Dio, alternando
la procreazione e lo sterminio assecondi
il progresso inarrestabile del mondo,
avviene che l’uomo, ostinato a sognare
la resurrezione dei corpi,
rivolga un appello patetico
all’esercito indaffarato dei vermi
perché restituiscano le loro prede, mentre
sulle navicelle spaziali insegue,
oltre la porta dischiusa del tempo,
la cara anima smarrita.
Per amore
di se stesso, avvelena i mari ove muoiono
le specie progenitrici, manda al rogo
vecchi boschi incupiti dall’oblio, ammutolisce
le voci insistenti delle acque, fiumi
di scorie e detriti vietano
il vacuo specchiarsi della luna, l’indolente
trasmigrazione-balneazione delle nuvole.
Allo stesso modo
è pronto a spezzare
la fragile linea dell’orizzonte,
pianificare le montagne, stravolgere
il corso ordinato delle stelle
pur di moltiplicare all’infinito
i propri, effimeri esemplari
nell’indifferenziata, brulicante inutilità delle copie.
Sebbene,
passandogli accanto, la vita
scosti da sé bruscamente
questo maldestro mendicante d’eterno.
Arteria
Arteria che restringi il tuo lume
a poco a poco, impercettibilmente,
dolce limpido fiume cui nei freschi mattini
s’abbeverava l’avventuroso desiderio
(correva le tue rive un’ardita
popolazione d’immagini, amore
accendeva fuochi improvvisi, ne avvampava
il giovane volto della vita) ora
rivo di acque torpide che accogli,
tra le pareti che si sgretolano, l’oscuro
deposito del tempo, le macerie
d’una disabitata esistenza,
tu, clessidra dei silenzi, se un vuoto
subitaneo d’anima riveli
col tuo pulsare dolente quando
un passato deluso opprime il petto aggrappandosi
a un futuro invecchiato,
arteria, per i divini sussurri
della tua fiamma antica, se non indifferente
accompagni il mesto
declinare della vita, lo sfiorire
solitario d’un volto,
la mente consapevole davanti al suo stesso tramonto,
a te, prima che il cuore svuotato s’arresti,
offro la poesia che t’assomiglia:
un groviglio logoro di versi.
Il silenzio
Hanno preso un vecchio gigante che giaceva
in mezzo alle tribolazioni della terra,
l’hanno svegliato di soprassalto
per appendergli al collo
un grande cartello variopinto che gli scende
fino ai piedi, anche il capo
hanno ricoperto con rami
di lauro e festoni. Ora
è sospinto al centro della piazza, la gente
s’accalca, legge il manifesto in versi che promette
felicità eterna, del vecchio
si scorgono soltanto i piedi che incespicano,
gli occhi tristi che
contraddicono le parole. Invece
le parole prendono viepiù risalto, sporgono
escono dal cartello, ma non l’abbandonano
sembrano api affaccendate intorno
ad un grande favo. D’improvviso
sciamano innumerevoli ronzando spariscono
nel cielo che fibrilla, in piazza
gli uomini gridano stupiti, il vecchio
scivola a terra lentamente
sotto il manifesto vuoto.
Solo allora
si ricordano di lui
che portava il cartello ed era
prima di quelle parole,
di lui, testimone dell’alba
prima che il Verbo, aleggiando sulla terra e su l’acque,
soffiasse l’effimera vita.
Leggendo L’alibi e il beneficio di Sereni
Qui non c’è nebbia, nulla
da ricordare o scoprire.
(Ben lucidati, netti
contorni dell’esistere).
Qui la storia si scrive
sui libretti a risparmio, entro il presente
germina e muore il futuro.
T’interessi alla nuova
autostrada che già frana, al prossimo
derby, progetti
evasioni balneari.
I morti
attendono la resurrezione,
nei frigidaires comunali.
Quanti anni
Quanti anni per averti.
A perderti
bastò la distrazione di un momento.
Ti strappò dalle mie braccia una folata,
un capriccio del vento.
A Giovanna
Mai come ora ti amo
mentre sussurri
le dolci sciocchezze profonde
che solo tu ed io conosciamo e
una verità inconsapevole tocca.
Le guardo salire dal cuore
al fresco della tua bocca.
E sembra che l’universo,
così vecchio, così accigliato,
sorrida facendoti il verso,
si fermi un istante
a riprendere fiato.
Portovenere
Credo in una Divinità esistita
or sono un milione d’anni luce
e l’immagine giunge differita,
ci viene incontro, pupilla azzurra
del mondo.
Importanza del linguaggio
Fu la luna a darci il segnale.
Con la fiamma ossidrica d’un raggio,
tagliò la lamiera d’una nuvola
e, districatasi dai rottami,
irruppe sulla scena
con la sua fiaccola incendiaria.
Ci avventammo al castello
dai nascondigli ormai inutili,
con torce resinose e fascine
rubate pregando
al pio rogo di un frate.
Ardevano porte e finestre quando
agile come un acrobata scese
con ampi cenni un uomo – o pareva –
da un albero altissimo
ove stava in vedetta.
Gridò che il castello era vuoto, i signori
fuggiti oltre il fiume.
Allora il più vecchio sputò nella notte,
segnatosi ed imprecato
per cancellare quel segno
perché il suo figlio era morto e quegli altri
restavano in vita; all’acrobata disse
«Nessuno di noi ha compreso i messaggi. Parlavi
una lingua straniera». Guardava
le nuvole in fuga, gli sciami
celesti. «Quanti altri castelli
dovremo bruciare domani».
Sciopero
Per le strade si leva fragoroso
con le serrande dei negozi il giorno
sollecita al lavoro.
Come una formica m’inerpico
tra blocchi di cemento e come un uomo
rivedo a ogni angolo l’immagine
del capo ufficio (a quest’ora
va annotando gli assenti, medita
vendetta al prossimo
alleggerimento del personale). Affretto
il passo, è soltanto
un riflesso condizionato; forse
mi sgomenta questo giorno
fuggito dai cancelli del previsto, ribelle
al saggio calendario dei programmi.
Fin che il vento
mi raggiunge in una folata, mi percuote
al viso, alle spalle, il sangue
ha un’impennata:
uomo, anche a malincuore.
Dal dì che nozze e tribunali ed are…
Il più difficile
è lo sciopero dalle abitudini
(il moto eguale, pacifico del treno
piombato: ignari, colmi
di sonno si discende). E come
rinunciare a un ordine, a un dovere
qualunque che invocammo
per noi stessi e per gli altri, un giusto alibi
al nostro non esistere? Stirpe
di disertori, d’inabili
al duro privilegio d’esser uomini,
abbiamo creato le macchine
perché vivano in nostro luogo.
In un giorno di luce ti disveli
o mia città di fabbriche, di banche
di cemento che avanza come lebbra
lungo i tuoi colli e se improvvisa incontro
una fiorita di ginestre è favola
perduta d’altri tempi. Il mare
vita-morte, di Sbarbaro e Montale,
già è coperto alla vista, s’ode a pena
il suo ansito tra claxon e sirene.
Così senz’odio, senz’amore spio
i duri lineamenti, il freddo
metallico tuo viso; non inganna
il sorriso che dai pubblici giardini
studiato nel suo effetto commisuri
al valore dell’aree cittadine. E se il tracciato
impaziente delle tue strade nuove
insidia l’ombra
dei vicoli sonanti ove tenace
s’intana in tollerato ghetto la vita,
non un palpito riveli, ma il sussulto
di un motore che ti scoppia nel petto.
Già morte nascono le cinquanta chiese
levate a consolare i senza-tetto:
funzionali, in pendio
come i cinematografi moderni,
complete di comforts, vuote di Dio.
La luce,
mediterranea luce che invera
le apparenze più labili scolpisce
questi che vanno tra negozi e uffici
spendendo il loro attimo ed è affanno
che muove a corsa il passo, la paura
di chi domandi una ragione: l’uomo
che arresta il gioco a un tratto e forse ignora
che il mondo sopravvive in questo moto,
nel ritmo collettivo che nasconde
il meccanismo dell’automazione.
Ripiego su rovine. Il cielo
ha rotto gli argini, con furia
implacabile d’escluso
ha sommerso le cose.
Sparsi relitti affiorano e la vela
biancostinta di un muro. Qui le rose
dei mitra fanno ressa alle parole
giustizia e libertà scritte a carbone.
Qualcosa
per cui morire
è qualcosa per vivere? Campìta
nel muro è la mia ombra, il presagio
del futuro che ricerca nella morte
un’immagine superstite di vita.
Ranger IX
I fanciulli aspettavano in uno spiazzo
davanti all’infermeria. Qualcuno
diede loro una palla, giocarono
fin che venne il loro turno. (Dagli atti del processo
ai criminali d Auschwitz).
Cos’è l’uomo, direte, un’espressione
dell’anagrafe, un nome
attaccato a un po’ di vita.
Ma la sonda spaziale. Operazione
luna. Cape Canaveral. Urrah
alla nube di polvere che s’alza
dal finto mare di Tranquillità.
La Storia, senz’amore, che pareggia
le stragi col benessere e la scienza
la Borsa dei valori ove si quotano
le azioni rapportando al capitale
sorge il sole a un orizzonte di sportelli, anima
oh anima immortale!
in principio era il Verbo ora vermicolano
sulla spoglia dell’essere parole
che vanno al nulla asettico, ma l’uomo
attende ancora il segno, volge
l’orecchio alle celesti
calcolatrici, sogna
d’esistere se lancia
nello spazio aquiloni alla luna?
1° gennaio 2000
Chissà che commozione.
Nessuna commozione. Guardo il cielo
se così può chiamarsi. Un luna park
con tutte quelle insegne. Chi vede più le stelle.
I satelliti invece. Ruotano. Usi pacifici,
industriali, la réclame.
«Sorridi Squibb» «Provate ambra solare»
«L’uomo di successo usa Gillette».
Così il messaggio. Un millennio scompare.
Su cosa commuoversi. La luna.
Rispettare le distanze.
Non togliere la vista. Tutela
del turismo nazionale.
E gli amanti? Distanze anche per loro. I figli
nascono in altro modo. La provetta
dà una prole perfetta.
Del resto, anche la terra: si feconda
con un metodo nuovo, artificiale.
La nube che si scioglie nel suo grembo
è un superstite male.
Aboliti anche gli alberi. Avanza
il cemento. È.un mare. Sommerge. Penetra. Sedimenta.
Nel cuore (scusate la parola)
nel cervello.
Opprime un’arsura senza sete.
Poi basta un tranquillante
a donarci la quiete.
1° gennaio 1980
Primo giorno
I tuoi vent’anni sono entrati di corsa
qui da noi nello stabilimento dell’acciaio,
la sirena si è interrotta sorpresa, incontro
è venuto il fumo acre delle ciminiere
ha fatto lacrimare i tuoi occhi, divertito
è fuggito come un monello, i compagni
silenziosi a guardare
le gambe snelle, il vestito da festa,
una parola e il tuo volto s’accende
forse la vampa degli altoforni, il folle
coro delle macchine, sorridi,
come giovane il mondo nel mattino
dello sguardo riveli.
Annunzio
Incenso mozzarespiro dei fumaioli, giallo
fuoco degli altoforni e quei giganti
magri che maledicono il cielo
ma nella cavità di questo braccio
deforme di una gru operaia
luna d’estate scampata ai diluvi
quale un annunzio
sei venuta a posare.
Quasi uno scherzo
Bianchi mobili in formica
sospesi funzionali
rubano poco spazio
loculi di colombari
tavolo di marmo
coltello dissettore
una mela ch’attende
madida d’orrore
contatori nascosti
frigidaire in agguato
– ipocrita assassino –
tubo acqua meato
sedia in metallo rampa
un missile il pensiero
con carichi di morte
per l’universo intero
chiuse porte e finestre
in tenebris immerso
rubinetti del gas
pollice verso.
Gozzaniana
«Scrivimi una poesia che sia d’amore,
un solo verso, ma che venga dal cuore…»
Sorrisi e m’aggrappavo alla mano
che mi tendevi, quel giorno lontano.
Compresi ch’era forse questione
di salvezza o di perdizione;
non seppi mentire e m’apersi:
«Non amo in vita, né in versi».
Adagio ritraesti la mano
tremando «Io invece ti amo»
voce, anima sperduta che ora
da quali inverni riaffiora.
Atto unico
Uno spiazzo che guarda il mare tra due file
di case in costruzione. Alto inchiodato ad un palo, un cartello
vieta probabilmente la sosta. Rottami intorno. Ai lati
un branco di utilitarie sparse
s’abbevera silenziosamente alle tenebre.
Canto
dell’amore nascosto. Firmamento minimo
di sigarette accese. Da invisibili strade riflettori
spade di luce. Corruschi, corrucciati angeli. E conobbero
la loro nudità. Lavorerai ecc. partorirai ecc. Ai cancelli
dell’Eden, sbattuti fuori in malo modo. Con
un vestituccio di pelli addosso, per salvare
la morale, e la sentenza
di morte sotto il braccio. A consolarsi disperatamente da far nascere
il tristo primogenito Caino. Dunque
pomo della sapienza, amore? Interpretazione
rifiutata con imbarazzo dai teologi. Adamo
camminava nella luce, vide la sua ombra
e odiò la luce. Gli s’aprirono gli occhi, insomma. In ogni caso
peccato di superbia. Ma, insistono i moralisti, la carne
ebbe sicuramente la sua parte.
Interno d’auto. Adamo ed Eva
teneramente abbracciati. Suono di claxon
involontario. Agitarsi convulso di ombre
entro le monadi a quattro ruote. Accelerazione
del battito cardiaco. Decelerazione.
Eva: (Ha scritto «ti amo» sui vetri appannati)
«Forse mi giudicherai un po’ sciocca»
C ancella in fretta, tra i sedili riversi
fiottano improvvise le galassie.
S orride, si ravvia i capelli, va frugando
nella buia gola della borsetta.
Adamo: L a guarda in rapimento e osserva
la sorprendente accondiscendenza dell’universo
a disporsi intorno a lei
come in una foto ricordo. «Amore mio». Domani
in fabbrica, lo attende una giornata faticosa. Fa scattare
la molla del sedile, avvia il motore.
Per una santa cancellata dal calendario
Questa scolorata immagine,
quam Johannes episcopus
dilectissimis filiis
anno MDCCCV donavit,
acquietò certo i dolori, nutrì speranze
di prosternate generazioni,
le quali consolate imputridiscono
nei camposanti del mondo.
Cara ai pellegrini, alto decreto
svela l’errore, annunzia il miracolo
dei miracoli operati senza esistere.
Gloria
all’anagrafe, ovunque, in terra e in cielo. Ad altro santo
(certificati in regola) innalziamo,
obbedienti, preghiere. Di te resta
ciò che resta delle offerte cospicue e lo splendore
degli alberghi fioriti per tuo incanto.
Notturno d’ospedale
Questa luce che non illumina,
scialbo pallore d’ospedale,
non vita o morte, ma entrambe
in un abbraccio incestuale,
ristagnerà fino all’alba
sui bianchi tumuli inquieti,
sopra le sponde di ferro
che fingono croci
alle pareti.
Ci si sveglia «cos’è stato?»
grido, silenzio, calpestio,
placido accorre un frate col rosario
«Coraggio, basta solo un Gesù mio».
Mezzanotte a fine d’anno
Di colpo s’è accesa una gara
di campanili, siamo vivi.
Quel che è stato è stato,
lo champagne, siamo vivi.
Si rideva l’altr’anno e mio padre
«per me sarà l’ultimo anno»,
era vecchio mio padre, nessuno
può vivere eterno,
l’impiego è sicuro il lavoro
non piace ma rende sei vivo una famiglia ci vuole
così l’interesse non manca l’amore
non sei un ragazzo se insisti diventi qualcuno
s’invecchia c’è tempo i tuoi versi
ma guardati attorno allegria,
allegria nel vuoto palazzo
che oggi spalanca le stanze
trecentosessantacinque in fila
come nuove, affrescate a calcina.